MIO PADRE ( tratta dalla raccolta Adusera 2013 )
Mio padre lavorava la campagna
e non pensava mai alla fatica.
Mio padre poi amava la montagna
dagli usi e dalla costumanza antica
Mio padre aveva fatto l’emigrante
con la valigia di cartone rotta.
Mio padre forse era un po’ ignorante
ma aveva sempre pronta la risposta
Mio padre aveva mani incallosite
il pane da nessuno ebbe in omaggio
Mio padre dalle energie infinite
di fronte alla vita dura ebbe coraggio.
Mio padre mi parlava molto poco
ma se parlava mi diceva il vero.
Con me lo porterò in ogni luogo
perché lui m’insegnò esser sincero.
Mio padre batteva la falce, servendosi dell’incudine e di uno speciale martello, quando ancora la rugiada copriva gli steli dell’erba e il sole, dietro la Pijeia, faceva capolino sulle chiome ammantate degli alberi di cerro. Metteva la lama della falce sul piano d’ acciaio, la bagnava con lo sputo e con il martello la batteva, rendendone il filo tagliente come un rasoio da barba, un filo sottile , senza nessuna imperfezione, batteva a ritmo cadenzato per più di mezzora, poi lo rifiniva con una pietra particolarmente abrasiva, dalla forma ovoidale molto allungata e di pasta fine, che si chiamava “la cote” e per farla correre più velocemente sulla falce la bagnava con l’ acqua presa da un corno rovesciato che aveva alla cintola. Mio padre batteva la falce tutte le mattine, prima di falciare strisce di prato, era il suo modo di pregare ad inizio giornata, una preghiera concreta e manuale dedicata alla Madre Terra. Da giovane aveva fatto il carbonaio, appena dopo la guerra, e da vecchio sognava sempre di ritornare là sui boschi d’alta montagna per fare di nuovo “piazze” di carbone, “ricacciando” legna con le bestie, accatastandola con un ordine ben preciso, a forma piramidale, ricoprendola poi di fogliame e terra per accendere un fuoco al suo interno. E’ difficile capire perché al termine dei suoi giorni sognasse quella vita di fatica, forse per riabbracciare una vigoria giovanile, forse per riappropriarsi di un’antica libertà. Si rivedeva il viso annerito dal carbone mentre con il bastone apriva piccoli cunicoli per far entrare l’aria nel cuore della catasta, creando una lenta combustione, sorvegliata giorno e notte, per tre settimane. Immagino la durezza della sua gioventù, interi giorni trascorsi ad abbattere alberi con un’ascia, spaccare legna e curare che il fuoco non ardesse troppo velocemente. Bastava una distrazione e tutta la fatica sarebbe svanita in cenere. Chissà se aveva il tempo di concedersi il lusso di sedersi per ammirare i caldi tramonti della Laga. Fu lui che m’ insegnò a camminare sui sentieri di montagna, che, allora, non erano fatti per gli escursionisti. Erano una fitta rete di antiche strade, mulattiere o semplici passaggi nei boschi. Mi fece capire che tramite essi, per secoli, gli uomini si erano spostati, avevano attraversato i crinali e risalito le vallate, avevano trasportato carichi di merci sul dorso di cavalli, muli ed asini. Con essi si era mantenuta viva, per centinaia di anni, una civiltà che lui intuiva sarebbe scomparsa in pochi decenni. Capiva perfettamente che di questa civiltà era uno degli ultimi testimoni. Per me, lui era un uomo speciale, pieno di magia, specialmente quando da bambino mi portava sui pascoli e posava la giacca sull’ erba per alzarla, poi, all’improvviso, facendo saltare in aria una miriade di grilli. Mio padre mi obbligava sempre ad una preghiera davanti alle croci di ferro o di legno dei crocicchi, e lì che il mio essere uomo ha preso il respiro della percezione dell’infinito, a cui non voglio e non posso dare risposta. Quella ce l’aveva lui con il suo amore per la vita di montagna, carica di momenti intensi e spirituali vissuti tra le forre e le cime. Un’esistenza piena di solitudini che il suo lungo vociare trasformava in gioia di vita accompagnata, quasi sempre, dal chiassoso scorrere dei ruscelli e dei fossi che allegravano le sue ore nei boschi. Chissà quante volte aveva camminato sotto la pioggia, che scendeva forte da nuvole scure, con il vento che scuoteva impetuoso le foglie degli alberi rendendole prigioniere dei suoi capricci. Oggi, riscoprendo questi sentieri, spesso, resto in silenzio, cerco di sentire i suoi pensieri, i fantasmi che gli danzavano dentro, dando irrequietezza alla sua anima. Mio padre sapeva che sarebbe finita così… Mi manca la sua compagnia, la sua saggezza mentre percorro queste mulattiere, ormai immerse nel fitto dei boschi, piene di storie pronte ad essere svelate. Storie che conosco molto bene, sono quelle di mio padre, dei miei avi, della mia infanzia, dove ho imparato a camminare in un ambiente meraviglioso, imprevedibile e sorprendente. Purtroppo ho sempre una strana fretta addosso, probabilmente ho solo voglia di scappare da certi ricordi e correre a casa prima che prendano il sopravvento. Intanto il tempo passa, scorrendo via, come il fiume Tronto lungo la vallata, facendo rumore dentro e fuori di me. Continuo a sentire la sua voce, anche se mi concentro sul rumore esterno delle foglie mosse dal vento o della pioggia che batte sulle rocce, una voce che cerco di esorcizzare, che ho dentro e che mi fa paura. Ora, mentre scendo verso il paese, sento gli occhi pesanti, qualcosa mi bagna il viso, non è solo pioggia…
(Non come chi vince sempre, ma come chi non s’arrende mai)
IL LUPO NON MANGIA L’ INVERNO (tratta dal libro Pastalocchie 2016)
(Non è la specie più forte a sopravvivere e nemmeno la più intelligente, sopravvive quella più predisposta al cambiamento. Dopo il tramonto c’è la notte… poi arriva sempre l’alba).
Mi chiedo se valga la pena di vivere
Tra questi morbidi avvallamenti montuosi.
Però sento che qui, per me è il posto giusto.
Qui sento attorno a me, dentro di me, come un coro di voci.
Sono di coloro che sono stati prima di me
Un silenzio di voci che bisbigliano
Potrei andare lontano, ma alla fine mi mancherebbe l’aria
E sentirei l’assenza di quel coro.
Essi sono i miei avi : mio padre, mio nonno e quelli prima di loro e i loro amici.
Queste voci non mi fanno sentire vecchio e mi danno saggezza antica.
Altrove la mia vita sarebbe superficiale ed insipida.
Rimarrei senza guida in questo lungo inverno carente di valori e virtù.
Vittorio Camacci