Dalla montagna se ne erano andati quasi tutti, tranne quelli più ostinati, duri come il travertino, che con il tempo invece di sbriciolarsi come ogni altra pietra, rimane uguale. I paesi erano abbandonati e con essi le case, le chiese, i negozi, i pagliai, le stalle e tutto il resto. Gli edifici che stavano ancora in piedi avevano le porte e le finestre sbarrate, tranne uno, isolato, con i muri scrostati, dove si leggeva ancora con chiarezza : “scuola”. Tutt’ intorno pesava un silenzio innaturale e ogni cosa parlava di quello che era stato. L’acqua ed il fango avevano scavato solchi profondi, dilavando i fianchi delle montagne fino al fiume Tronto. C’era stato un tempo che quei fianchi erano attraversati da centinaia di muri, costruiti sasso a sasso senza un filo di cemento, interrotti  ogni tanto da sentieri e mulattiere consumati dall’andirivieni perenne di bestie e uomini. Questi muri reggevano tasche di terra, ogni tasca di terra reggeva orti, vigne, frutteti e tutti assieme: piante, muri, uomini e bestie reggevano i fianchi delle montagne. C’era stato poi un tempo in cui anche quassù si era sognata la ricchezza comoda del turismo invernale, legato alla neve che negli anni antichi insieme alla miseria era la sola cosa che si presentava ogni inverno, ma poi successe quello che successe, e la neve, a differenza della miseria, non si presentò più e di quel tempo non rimanevano che ricordi e opportunità mancate. Una giovane donna camminava verso la scuola, si fece coraggio ed infilò la chiave che girò liscia nella serratura, il portone si aprì senza un cigolio; alle sue spalle una voce la fece trasalire: “ E’ lei la nuova maestra? Sa ci ho messo sempre l’olio ai cardini”. Un uomo sulla settantina la omaggiò con una stretta di mano e si presentò come il sindaco. L’ uomo notò l’imbarazzo  e lo stupore della giovane: “ Beh sa, noi ci teniamo alla nostra scuola, anche se non ci viene più nessuno  da molto tempo, ma adesso vedrà, li sente? Stanno arrivando”. Un pulviscolo di voci si mescolò al silenzio innaturale della montagna e ad uno ad uno una decina di bimbetti si fecero sempre più vicini, a che la piccola donna potè distinguere le diverse etnie da cui provenivano: tre erano indubbiamente asiatici, cinque avevano le caratteristiche africane e due sembravano dell’ est-europa. “Sono i figli dei nostri nuovi coloni: Dumaka, Yamuro, Thena, Umi, Dofi, Li, Kumico, Nikita, Yari e Dimitri, per ora sono pochi, può sembrare strano, ma vedrà signora maestra che si troverà bene con loro. Vedrà”!  Alla giovane ogni possibile domanda restò ferma in gola, piantata e dolorosa come una lisca di pesce. Il sindaco continuò sottovoce come se rivelasse un enorme segreto: “ E’ a causa della diaspora e della denatalità, è stata una grande catastrofe ma stia sicura che pian piano tutto si normalizzerà”. Non si trovò male quella piccola donna con la sua classe multietnica anche se aveva difficoltà nel farsi capire e nel comprendere i loro diversi idiomi. I ragazzi però la amavano, le ubbidivano e la facevano ridere. Tutto questo le bastava. Poi un giorno, davanti alla montagna desertificata, sotto un sole senza più stagioni, la maestra portò i bimbi a fare una passeggiata, quel giorno tutto pareva diverso, i pochi alberi rimasti erano scheletriti, solo qualche cespuglio di ginepro, di agrifoglio e di biancospino verdeggiava sulle lande desolate dei fianchi montani e fu allora che dal cielo incominciarono a cadere fiocchi di una sostanza fredda e bianca che nessuno di loro sapeva cosa fosse. Cominciò così l’ultima illusione, la natura in un moto di pietà verso quella comunità eterogenea pensò di regalarle un ultimo sogno di neve prima della catastrofe definitiva. L’ultima neve per Arquata.

“ uelli che sognano li riconosci, hanno negli occhi un velo di tristezza. Hanno la malinconia addormentata agli angoli della bocca, hanno l’aria di chi cerca ma non trova. Sognare è faticoso, non costa niente ma non è da tutti è per le persone coraggiose, sognare”.

              Vittorio Camacci