A Pasqua ogni famiglia doveva avere le uova benedette in casa. Tutti osservavano questa tradizione compresi quelli un po’ atei. In verità “ateo” era una parola un po’ grossa, diciamo che in ogni famiglia le donne andavano spesso alla messa ed ogni tanto si confessavano, gli uomini, invece, frequentavano raramente la chiesa soprattutto quelli che si definivano “comunisti”. Definirli “atei” era improprio perché almeno una volta all’ anno si confessavano ed andavano a messa e questo avveniva di solito a Pasqua. ” Non c’ erano Santi né Madonne” per Pasqua tutti dovevano confessarsi e fare la comunione, uomini, donne, anziani e bambini. Molti brontolavano, soprattutto i più rudi, ma poi tutti aderivano. Più che per fare contento Don Paolo o le mogli e le madri ubbidivano ad un timore interiore perché i loro avi avevano sempre fatto così e quindi un motivo ci doveva essere. In realtà alcuni bleffavano, nel senso che facevano finta dicendo qualche bugia. Rimase famoso il caso di un noto zitellone locale che non si fidava di Don Paolo e si confessava solo il Mercoledì Santo, quando, il nostro beneamato parroco, per ovvi motivi, faceva venire dei frati, appositamente da lontani conventi, nella nostra parrocchia. Lui si avvicinò guardingo al primo confessionale, si inginocchiò con il viso davanti alla grata “bucherellata” e rimase in attesa. Finalmente il frate confessore, che quell’ anno era irsuto, alto, robusto e sembrava molto deciso entrò nel confessionale. Non vi nascondo che lo scapolone vedeva il tutto come un supplizio e cercava di fare in modo che il tutto accadesse nel più breve tempo possibile. Ma quel poderoso frate non la pensava così, forse perché aveva intuito che quell’ uomo che rispondeva a monosillabi dialettali nascondeva qualcosa di strano. L’ erculeo monaco esordì senza indugi o remore con un secco: ” bene, figliolo che peccati hai commesso”? Lo scapolo si sfregò le mani e pensò: ” Mo’ mi la cave ch’ en puche”! Disse velocemente che non andava quasi mai in chiesa e che ogni tanto palesava ad alta voce ingiurie e bestemmie mentre nel frattempo pensava: ” Mo’ stu’ Santando’ mi fa di’ nu Padrenuste e du Avemarie e mi spicce subbite” ! Non fu così! Iniziò, per lui, un vero e proprio calvario. E dove abitava, che mestiere faceva, quanti anni aveva e perché non si era sposato, poi nel caso, qualvolta, gli fosse venuta la voglia di pregare che suppliche invocava. Il supplizio durava da più di mezz’ora e lo zitellone era sudato fradicio, peraltro si esprimeva in dialetto, quindi il frate non capiva facendolo sforzare oltremodo per tradurre in italiano. Ad un certo punto arrivò la domanda che rischiò di guastare tutto. Il frate gli chiese se aveva mai desiderato la donna d’ altri. Lo scapolone rimase interdetto , fece una lunga pausa come se cercasse tra i suoi ricordi poi disse : “No ma forse sci”! L’ irsuto cappuccino, spazientito, voleva una risposta certa. Allora il tapino raccontò la verità. Disse che frequentava di tanto in tanto una vedova di un paese vicino. Si vedevano con varie scuse ad Acquasanta per gli incontri amorosi. Precisò, pure, che quella donna non era di altri perché il marito era morto, esibendo il coraggio comune a molti uomini quando sono in difficoltà, disse con voce ferma e decisa: ” La colpa jie’ la sii, pecche’ jie’ na diavula tentatrice”! Alla domanda perché non la sposi lo scapolone rispose: ” Pecche’ jiessa dicia chi jie’ abbassate lu’ prime marite”! Alla fine il supplizio terminò. Lo zitellone si alzò dal confessionale stremato e mandido di sudore decidendo di fare la penitenza all’ osteria per ritemprarsi dalla fatica. Una cosa è certa, non l’ ho più visto confessarsi né entrare in chiesa se non al suo funerale.

Vittorio Camacci