Il mio bisnonno Domè cominciava ad essere preoccupato. Era un luogotenente del capitano Fabriziani, comandante delle truppe di massa pontificie spelongane fedeli al maggiore Giovanni Piccioni e si trovava a Montegallo pronto a tornare a casa dopo aver portato un dispaccio urgente a Don Taliani, comandante dei sanfedisti, con la richiesta di rinforzi. Erano i primi di dicembre ed il tempo era stato eccezionalmente clemente per il periodo. Oltre alla vigoria fisica delle sue quaranta primavere, anche la mitezza del clima lo aveva spinto a ripartire subito da Corbara per portare il messaggio di risposta al suo capitano, cercando di anticipare il tempo di alcune ore. Lo aveva motivato con il dovere morale, ma in cuor suo, sapeva bene che il vero motivo erano le grazie della mia futura bisnonna, di cui si era innamorato, anni prima. Non poteva togliersi dalla mente il dolce viso della pulzella, venticinque anni più giovane di lui, con l’incarnato bianco e rosso, su cui risaltava come un rubino, la boccuccia carnosa, con i denti simili a perle lucenti. Appena ricevuta la risposta di Don Taliani era partito in tarda serata, ventre a terra, contando di arrivare a casa il mattino successivo. Ora, mentre affrontava le prime balse verso Passo Galluccio, il tempo era repentinamente cambiato. Si era levato all’improvviso un vento di Grecale, con violente e gelide folate che ammassavano neri nuvoloni sul valico dove doveva passare. Si avvolse nel mantello e dopo aver messo il cavallo al piccolo trotto si rituffò nei suoi pensieri. Una raffica di vento gelido gli tolse il respiro, mentre con suo grande sgomento, cominciava a nevicare. Il mio bisnonno Domè aveva i piedi semi-congelati e, per riscaldarsi, decise di scendere da cavallo. Dopo aver fatto passare le redini sopra la testa, lo prese a corto per la cavezza e proseguì il cammino. Il freddo diventava sempre più feroce ed il cammino in mezzo al bosco di faggi era diventato una vera tortura perchè la neve ormai turbinava in ogni direzione, accecandolo e togliendogli il respiro. Il vento ululava, senza sosta, le nubi basse e gonfie si erano impigliate sulle rocce del Vettore, trasformandosi in una nebbia così fitta tanto che il mio ardito avo faticava a vedere ad un palmo del proprio naso. Perse la cognizione del tempo, mentre semi-congelato, con la coltre nevosa che aumentava continuava l’ascesa verso Passo Galluccio. Si fermò un attimo, per riprendere fiato e decise che era meglio lasciare al cavallo tutta la fatica dell’ascesa poi si pose dietro al quadrupede, attaccandosi saldamente alla coda, dopo avergli dato un leggero colpo ai quarti posteriori per farlo muovere. Anche questa soluzione durò poco e appena passato il passo preso dalla stanchezza pensò di lasciarsi cadere a terra ed arrendersi. Proprio in quel momento, una folata di vento sollevò per un attimo la bruma  e vide una lanterna appesa ad una trave che spandeva una flebile luce. Era la taverna della dogana di Santa Gemma. Si trascinò fino alla porta e fece un gigantesco sforzo di volontà per apparire in piena forma bussando con violenza. La taverna, a causa della tormenta, era completamente piena di viandanti, tutti accomodati davanti al camino in cerca di tepore. Il mio bisnonno aveva bisogno di un posto davanti al fuoco per riscaldarsi ma sarebbe stato poco onorevole per un gigante senza paura chiedere, così pensò di ricorrere all’ astuzia. “Locandiere” disse con voce tonante: “porta un pollo arrosto con patate ed una brocca di vino al mio cavallo nella stalla!” L’oste anche se stupito non osò contraddire il volere di quel bestione, quindi seguito da un codazzo di curiosi si avviò verso la stalla. Domè si accomodò in un posto libero vicino al camino e con un sorriso sornione attese. Poco dopo l’oste rientrò con il vassoio fumante e la brocca e disse con aria mesta : “signore il cavallo non vuole mangiare queste cose!” Il mio bisnonno fece un gesto di stizza e rispose : “Diventa sempre più geloso ed esigente, forse voleva un paio di pernici arrosto. Dagli un po’ di biada e la sua cena dalla a me, ancora una volta mi sacrifico per lui!” Con aria sorniona e prepotente si tuffò così sull’ottima cena.

               Vittorio Camacci