Scommetto che sono pochi quelli delle nuove generazioni che hanno avuto la fortuna di poter assaggiare un pezzo di pane casereccio appena sfornato. Non potete neanche immaginare  cosa vi siete persi… E che cosa quelli anziani come me rimpiangono con molta nostalgia. Quando io ero bambino il pane nelle nostre zone era ancora prodotto autonomamente da ogni famiglia. La sua produzione era relativamente semplice, bastavano: acqua, lievito, sale e farina ed un luogo di cottura, ossia un forno. Infatti, tutte le antiche abitazioni avevano a fianco un vecchio forno a legna. La loro tecnica di costruzione era antica di secoli, fatta interamente di materiali poveri locali ed erano un vero e proprio capolavoro di efficienza e semplicità. Su una base di pietra arenaria, venivano inseriti mattoni refrattari, per ottenere una buona pavimentazione resistente alle alte temperature. Su queste veniva poi tracciato un cerchio, che era esattamente, l’ampiezza interna del forno da costruire, quindi si contornava l’esterno della tracciatura con una prima fila di mattoni refrattari posti in “costa”, con una leggera pendenza verso l’interno. Dentro il primo giro di mattoni si metteva una grande quantità di sabbia umida, battuta e compattata fino a formare una cupola. Questo non era altro che la copia in rilievo della cavità del forno. Ora bastava murarvi sopra mattoni refrattari, giro dopo giro, inclinati in dentro, lasciando ovviamente il vuoto della bocca. Quindi si estraeva la sabbia dall’ interno e si apriva un camino sopra la bocca. Tutto era racchiuso da mura in pietra arenaria riempite di creta refrattaria per trattenere meglio il calore. Usando travetti di castagno opportunatamente squadrati e saldamente murati, si costruiva il tetto coperto da tavole, sempre di castagno, con sopra i coppi o le tegole. Questi tetti di solito comprendevano anche un ballatoio che proteggeva dalle intemperie la bocca del forno e chi vi avrebbe lavorato. La bocca era tappata da un coperchio in ghisa con manico. Il forno appena costruito andava poi “svegliato”, cioè battezzato con il primo fuoco interno lasciato successivamente raffreddare a coperchio chiuso per tutta una notte. “Fare il pane” era un’attività prettamente femminile, assai faticosa, tramandata di madre in figlia, senza supporti tecnologici come le impastatrici, e solo forza di braccia ed esperienza acquisita in anni la rendeva possibile. La massaia, ogni quindici giorni, era addetta a questa incombenza, spesso aiutata dalla suocera o dalle figlie maggiori. Si cominciava con il setacciare la crusca, residuo di macinazione ancora impuro, ricavata dal grano autoctono, che allora si coltivava fino ad alta quota, le qualità più usate e più resistenti erano il Marzolo, il Solina, il Frassineto ed il Senatore Cappelli. Ancora erano attivi alcuni mulini e si poteva macinare il raccolto vicino casa. Nel mio paese esisteva un grande mulino a pietra, alimentato ad energia elettrica, gestito dalla famiglia D’Ortenzi in un locale annesso al loro emporio commerciale. Ma ben più antichi erano i mulini ad acqua lungo il fosso di Capodacqua, il fiume Tronto ed il fosso delle Pianelle. La farina ricavata veniva impastata nel quantitativo necessario con lievito “madre” ed acqua. Il lievito si tramandava di famiglia in famiglia da decenni e veniva conservato religiosamente. Dopo aver formato le pagnotte, si ponevano su una tavola di legno, coperte con un telo di lino e lasciate lievitare per qualche ora. Intanto si accendeva il forno e si portava a temperatura, cioè fino a che la volta interna non diventava grigia, quindi si spargevano le braci su tutta la base del forno, per farlo scaldare uniformemente. Nel frattempo si rimpastavano e riformavano le pagnotte, avendo cura di segnarvi sopra una croce, sia per ribadire la sacralità religiosa del pane sia per far uscire meglio il vapore da esso. Quando le braci si velavano della prima cenere, si toglievano e si puliva accuratamente il forno con una scopetta di ginestra passandovi poi uno straccio umido inchiodato su di un bastone. Prima s’infornava la teggia della pizza casereccia, la “Cacciannanze”: “bianca” guarnita con olio e rosmarino o “rossa” con aggiunta di pomodoro. Poi con una pala di legno si infornavano le pagnotte e si chiudeva la bocca con il coperchio. Poco dopo il fragrante profumo del pane si spargeva come un balsamo miracoloso per tutta l’ aia. “Mà damme lu pà”! Era questa l’atavica richiesta che scaturiva allora dalle nostre bocche, pronte a riempirsi di croccanti panzanelle, bruschette con olio d’ oliva, fette di pane spalmate di fresca ricotta pecorina e pezzi di pizza odorosi. Bastava così poco per renderci felici e rinvigoriti, pronti per affrontare nuove scorribande nella natura.

                Vittorio Camacci