Il cavalier Astolfo d’Acquaviva fermò il suo cavallo all’ombra della Rocca, scese e si sedette all’ombra di una grande quercia. Precedeva di alcune leghe la sua carovana composta da due palafreni, un purosangue e di tre muli carichi delle sue armi e della tenda, dove soleva passare le notti quando lasciava la sua magione per diventare cavaliere errante. Il suo purosangue Alceste, privo di finimenti, era condotto a mano da Berardo, uno dei suoi scudieri. Vedendolo seduto, Artemio, uno degli inservienti della Rocca, corse a porgergli una sacca di pelle colma d’acqua che portava a tracolla, quindi gli consigliò dove allestire il campo per la notte. Era giugno inoltrato, il caldo si faceva sentire e nugoli di mosche cavalline e tafani infastidivano le sue cavalcature che agitavano continuamente le code nel tentativo di scacciarle. Ordinò immediatamente agli scudieri che tutte le bestie fossero lavate con l’ aceto per alleviarle un po’ del tormento. Finalmente gettò lo sguardo sulla valle sottostante, che gli apparve in tutta la sua maestosa bellezza, intorno al fiume Tronto le vigne erano rigogliose e boschi circostanti si estendevano a perdita d’occhio, dall’ alto il filo d’acqua che scorreva cristallina brillava sotto gli ultimi raggi del sole. La campana della Torre Civica ritoccò l’ora sesta, il cavalier Astolfo si volse e disse ai suoi esausti accompagnatori : “Coraggio miei fidi, tra poco riposerete !”. I grilli riempivano la notte con la loro sinfonia, mentre migliaia di lucciole sembravano voler sfidare le stelle in cielo. Dopo una frugale cena a base di zuppa di verdure e lenticchia, il cavaliere si adagiò su un giaciglio di paglia, ma il sonno tardava a venire, mentre lì accanto i suoi scudieri, sfiniti dalla lunga marcia e dal lavoro, russavano sonoramente. Il suo pensiero andava alla giostra che fra due giorni si sarebbe tenuta nel Borgo. Era stata indetta dal Castellano, per celebrare degnamente le nozze della primogenita. Erano pochi i cavalieri che vi avrebbero partecipato, quasi tutti di Nursia e Spoletini, erano agguerriti e preparati. Lui sperava ardentemente di poterne sconfiggere qualcuno, in modo da poterne ricavare una bella somma di riscatto. Sperava anche di non essere sconfitto, perché la sua borsa era decisamente vuota e non avrebbe potuto pagare nessun riscatto, perdendo così armi e destriero. Dopo una notte passata in gran parte insonne, finalmente giunse l’alba. Il sole fece capolino de dietro le montagne del Regno mentre merli chiassosi lo salutavano con i loro melodiosi canti interrotti a breve dai monotoni versi di un cuculo solitario. Dopo aver assistito alla Santa Messa ed essersi confessato nella Chiesa dell’Annunziata, si mise davanti alla sua piccola carovana imboccando la Vecchia Consolare che scendeva verso il Borgo. Quando vi giunse, il sole era già alto nel cielo ed i suoi raggi scaldavano con forza l’aria, sembrava di essere dentro una fornace. Un armigero, di guardia al piccolo ponte che attraversava il torrente delle Pianelle, lo scortò in un grande spiazzo erboso dove erano già montate alcune tende. Riconobbe immediatamente, con preoccupazione, gli stemmi araldici dei suoi avversari, ma fece finta di nulla e ordinò agli scudieri di montare la tenda e di esporre il suo stemma. Il resto della giornata passò velocemente per preparare tutto il necessario per il torneo. Prima che l’alba spuntasse, gli scudieri erano già in piena attività, strigliavano i cavalli, lucidavano le armi e le corazze e cercavano informazioni utili sui partecipanti per favorire i loro padroni. Berardo come scudiero anziano aiutava Astolfo nella complicata vestizione: prima gli calzò la veste imbottita, poi la cotta di maglia, infine fissò la corazza, i guanti ferrati, i cosciali, gli schinieri e le calzature. Gli altri scudieri intanto preparavano il destriero con la gualdrappa imbottita, la pettorina di ferro a piastre, la testiera e la sella con i paracosce di cuoio rinforzato. Poco prima della terza ora, annunciato dal rullo dei tamburi e delle chiarine, il Castellano fece il suo ingresso nel campo e si diresse, seguito da tutti i Notabili, le dame ed i cortigiani, verso il palco d’onore. Dal palco dei giudici l’araldo annunciò l’inizio della giostra che si sarebbe svolta con lance ed armi cortesi. Il premio per il vincitore sarebbe stato di cento ducati con il riscatto delle armi dei perdenti; quindi chiamò al centro del campo tutti i cavalieri. Astolfo salì in sella ed indossato l’elmo sovrastato da un rosso cimiero prese la lancia che Berardo gli porgeva per portarsi al centro dell’arena. Il popolo della montagna era accorso numerosissimo per assistere rumoroso all’avvenimento mentre giocolieri, cantastorie e venditori ambulanti facevano affari d’oro. Il primo cavaliere chiamato dall’ araldo passò lentamente davanti alla parata di stemmi e toccò con la punta della lancia uno di questi, il cavaliere corrispondente calò la celata e si portò al piccolo trotto in fondo alla staccionata che divideva i due contendenti. Fu allora che uno squillo di chiarina diede inizio alla tenzone. I due destrieri spinti da potenti colpi di sprone partirono di gran carriera, uno contro l’altro, il cavaliere sfidato colpì per primo lo sfidante in pieno petto, con uno schiocco la lancia si spezzò seguita da un urlo della folla. Il cavaliere colpito si disarcionò e fece un rumoroso e pesante ruzzolone a terra. Gli scudieri accorsero e trascinarono via cavallo e cavaliere perdenti. La sorte fece capitare ad Astolfo uno dei cavalieri più conosciuti ed importanti che lo sfidò con piglio arrogante. Posto in fondo allo steccato Astolfo vedeva attraverso la sottile fessura dell’elmo, l’imponente figura dell’avversario stagliarsi contro il sole, questi era soprannominato il “Grifo” per via della mitica bestia che aveva montata sul cimiero, vestiva una corazza interamente dipinta di nero, con intarsi d’oro e montava un gigantesco stallone bianco. Astolfo pensò che se avesse resistito al primo assalto, il calore e la luce del sole sarebbero stati poi, validi alleati. Al suono della chiarina parti di gran carriera spostando in avanti il peso del corpo sistemando leggermente lo scudo di traverso. Il “Grifo” colpì per primo, ma la lancia scartò verso l’esterno spezzandosi mentre Astolfo dovette stringere i denti per sopportare lo sbilanciamento ed il conseguente dolore lancinante alla spalla sinistra. Adesso le parti erano invertite, lui era con il sole alle spalle ed il “Grifo” doveva patire l’inferno dentro la corazza nera. Questa volta, quando il cavaliere d’Acquaviva partì, portò la lancia il più in alto possibile, in modo che il colpo sbilanciasse l’avversario, e così puntualmente avvenne. La parte più alta dello scudo grifato, colpita con violenza, si piegò all’indietro e la lancia anziché spezzarsi andò ad infilarsi nel cavaliere nemico proprio all’altezza della gola, la parte meno protetta di tutto il corpo. L’elmo ornato dal grifone schizzò via, mentre un potente fiotto di sangue scaturì dalla gola squassata del cavaliere spoletino. Un urlo agghiacciante si levò dalla folla, mentre la nera figura rotolava nella polvere; gli scudieri accorsero subito, ma nulla poterono, il “Grifo” era morto. Astolfo scese di sella e si precipitò a vedere il suo avversario, capì subito di aver vinto il torneo, a quel punto nessuno avrebbe più osato sfidarlo.

Vittorio Camacci