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” Poi di buon mattino mi alzai

ripresi il mio lavoro nella campagna

come già dissi sempre aiuto dai

a quelli occulti alle grotte di montagna.

Quando nel Quinto va nel Sesto i rai

stavo a lavorar nella salagna

mentre con legno cocevo il carbone

vennero due di stranier sermone

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Finito di passar squadre interrotte

di fuggiaschi di ogni terra straniera

giunse il tempo della lunga notte

ed il giorno freddosa atmosfera

il vento austral facea gran lotte

con il boreo il qual sempre impera

con la famiglia tornai al villaggio

lasciando ivi pecore e foraggio.

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Di avermi salvato ebbi l’orgoglio

ma provai un fortissimo dolore

sentir la morte d’Alessandro e Voio

questa notizia mi trafisse il cuore

certo mi durerà finchè non moro.

Sempre maledirò quell’ uccisore

che spense qui giovani jugoslavi

ch’eran rispettosi, onesti e bravi.

            Guido De Julius di Collefrattale

 

Il Bosco Martese è un immenso patrimonio verde di faggi, abeti e querce, un confine naturale tra due antichi stati: quello Pontificio a nord e quello delle Due Sicilie a sud. Oggi è invece demarcazione tra due splendide, affascinanti e poliedriche regioni: Marche ed Abruzzo. Esso è un vero e proprio scrigno di biodiversità, tra fonti e rivoli d’acqua, cascate e forre, gioiello incontaminato del Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga. Pochi sanno che i suoi sentieri silenziosi, più di settantacinque anni fa, diedero avvio alla Resistenza nazi-fascista regalandoci la libertà di cui oggi godiamo. Qui, infatti, il 25 settembre del 1943 si svolse la prima battaglia partigiana della Guerra di Liberazione. In quei giorni, tra queste valli, si riunirono spontaneamente militari e civili di ogni estrazione e provenienza, più di mille, che si opposero alla dittatura. Non solo marchigiani ed abruzzesi ma anche forestieri di altre regioni e stranieri di etnia jugoslava, inglese, canadese, australiana e neozelandese. In questo lembo di montagna, sacro al Dio Marte, nume tutelare della guerra, regno di lupi e bestie selvatiche, trovarono rifugio uomini liberi che odiavano le tirannie ed i dispotismi. I tedeschi, guidati da collaborazionisti teramani,  salirono fino qui con un battaglione motorizzato composto da 32 automezzi e armi pesanti per scovare i ribelli, stanarli e convincerli alla resa. Erano lupi che allontanavano altri lupi, il Dio Marte tornava tra questi boschi nella sua veste più cruenta. La battaglia iniziò alle 12,30 e durò solo poche ore. Un combattimento sanguinoso, con un esito imprevedibile che innescò la miccia della Lotta di Liberazione. Lo scontro costò ai tedeschi 50 uomini, 5 camion e due autovetture. Dovettero ripiegare verso Teramo dopo aver cannoneggiato inutilmente, per ritorsione, i crinali scoscesi della montagna. I partigiani, capeggiati dal comandante dei carabinieri reali Ettore Bianco, si erano già divisi e dispersi tra le vaste forre della montagna. Oggi, della battaglia, rimane un monumento all’inizio del bosco. Lo stesso che anni addietro era stato rifugio dei briganti e secoli prima passaggio del “Tracciolino di Annibale”, il mitico percorso su cui si era avventurato il condottiero cartaginese nel tentativo di aggirare le legioni romane. L’episodio fu, senza ombra di dubbio, l’ esordio della guerriglia partigiana ed ebbe un trucido prezzo nella rappresaglia con il suo inevitabile tributo di morte. Cinque ostaggi, tre carabinieri ed un soldato furono giustiziati, tra di loro anche il medico di Torricella Mario Capuani, colui che aveva radunato in casa i primi anti-fascisti teramani. Intanto tre compagnie, comandate da Ettore Bianco si erano rifugiate nell’ alto-acquasantano unendosi a prigionieri slavi, greco-ciprioti e anglo-maltesi evasi dal campo di concentramento di Servigliano. Nella notte tra il 10 e l’11 marzo del 1944, malgrado la neve, i tedeschi della 6^ Compagnia Branderburg 3, guidati dal maresciallo Isidoro Melchiori e da fascisti locali, salirono verso le frazioni di Pito, Pozza e Umito per cogliere di sorpresa i Partigiani, attraverso un accerchiamento a tenaglia. Attaccarono prima Pozza di Acquasanta, incendiando le case dei poveri montanari, razziando cibo e denaro, per poi fucilare, seduta stante otto giovani inermi davanti agli occhi dei loro parenti. Ad Umito trovarono, invece, gli uomini di Bianco pronti a riceverli, lo scontro fu violento ed i tedeschi persero trenta uomini tra i quali il comandante Rudolf Stegmeier. Anche qui i teutonici sfogarono la loro rabbia bombardando ed incendiando le case del paese con bombe e bengala, uccidendo così altri inermi civili tra cui una bimba di undici mesi. Anche i Partigiani subirono molte perdite , 35 membri della brigata tra cui 15 slavi, ma ancora una volta riuscirono a sganciarsi ed a risalire gli aspri crinali della montagna a sud del Garrafo. Oggi, l’anniversario dell’eccidio viene ricordato annualmente con una cerimonia che si tiene nel piccolo cimitero partigiano di Pozza-Umito. Al centro di una piccola valle umile e serena, quasi nascosta, dove uniti nello stesso ideale morirono nativi e partigiani stranieri, gente semplice e forte, esempio di resistenza di un popolo, sopraffatto da secoli di violenza e sopruso, che non si piegò alla repressione rabbiosa e feroce, anelando un mondo di pace, giustizia e libertà. Tutto questo dovrebbe insegnare, ai “resistenti” attuali, quelli del post-terremoto e della pandemia, che bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli e tracciarli, non nella violenza, ma a fianco dei ripristinati cammini naturalistici. Più che mai adesso tornano alla ribalta le parole: Resistenza, Resilienza, Rimanenza.

“Compagni, quando vedrete mia madre ditele di non piangere… Che nessuno ardisca gettare fango sui resilienti uniti nella comune lotta. Qui abbiamo la nostra fede, il nostro pane, la nostra vita. Qui vogliamo morire ed essere seppelliti nella speranza che il nostro sacrificio unirà i nostri figli nel futuro”.

               Vittorio Camacci