Capodacqua – muli di Giancarlo
Uno dei più dolci ricordi della mia infanzia erano i giorni passati in compagnia degli ultimi mulattieri. Nella fantasia di un bimbo vivace e immaginoso come me essi erano dei “Sacerdoti del Tempo”. Stare dietro a Gigi, Giò, Zio Milie, Marà, Vico, Minghe, Giancarlo, Caiola era come tornare indietro nel tempo, anzi, era mia convinzione che essi provenissero da un’altra epoca perché vivevano una dimensione particolare, molto personale: interagivano con i loro animali, spesso parlavano con loro, vivevano una simbiosi unica che si rapportava ai tempi naturali delle stagioni. Avevano a che fare con bestie pazienti e cocciute che si muovevano sotto il suono ipnotico degli zoccoli, che non galoppavano mai e trottavano soltanto al passo di carico, da condurre tra guadi di fossi e dirupi, come una pena infinita. Come i loro animali avevano inoltre una grande resistenza alla fatica ed una fortissima capacità d’adattamento alle condizioni climatiche più cangianti ed avverse. Inoltre, erano profondi conoscitori dei sentieri e del territorio dove sapevano orientarsi con estrema bravura. Il mulo è un animale ibrido che si ottiene dall’ accoppiamento dell’asino con la cavalla, mentre dall’ accoppiamento inverso deriva il bardotto. Per questo fatto il mulo è un animale sterile che assomiglia più all’ asino che al cavallo e per questo ha pregevolissime doti di resistenza, ostinazione e pazienza. E’ un animale prezioso in montagna, nei lunghi percorsi, in località alpestri inaccessibili. Insomma esso può essere considerato il fuoristrada dei quadrupedi. Dalle nostre parti, essi venivano riprodotti in una piccola stazione di monta equina, funzionante fino alla fine degli anni settanta. Era gestita da un simpatico signore di Ortezzano che si chiamava Ricci ed era situata in prossimità delle attuali case popolari del capoluogo. Mi sembrava un viaggio mitico ed avventuroso, quando la raggiungevamo dal mio paese attraverso il vecchio sentiero selciato che, con una passerella attraversava il fiume Tronto, proprio dove una volta c’era l’antico “Ponte di Verio”. Fino ad allora erano stati mantenuti attivi i sentieri adatti alla circolazione di questi animali da soma ed ogni giorno si potevano incontrare i muli che portavano i loro carichi. Gli ultimi mulattieri erano anche “Missionari nella Natura”, infatti vivevano una spiritualità con essa nella realtà di tutti i giorni sopravvivendo con un lavoro veramente poco redditizio, un lavoro di “resistenza”, antichissimo, abbinato spesso al taglio del bosco per fare legna, da loro definito ” ricaccio con i muli “. Partivano spesso all’alba, appena sistemati i basti, per evitare le ore calde. Parlavano con le bestie con un: “lè” o “Aah”; arri qua ” o un’ “arri là”; oppure un : “mo te lo daje!”. Spesso erano inflessibili: “fai lo spiritoso? Beccati stò cazzotto!” Anche se il più delle volte erano affettuosi con essi e gli davano anche nomi di persone: “Giggetto, Rosetta, Livio, Carlina”, trattandoli come un familiare perché dalla loro forza e dalla loro fatica dipendeva il lavoro di tutti i giorni. I mulattieri erano di solito uomini duri, dal fisico asciutto e dalle mani dure, lo sguardo melanconico e di poche parole ma coccolavano le loro bestie, le pulivano quasi giornalmente con striglia e brusca e durante i lunghi percorsi li accompagnavano con canti tradizionali, oggi scomparsi, inghiottiti dal tempo. Mi ricordo che erano bellissimi, nostalgici e struggenti, pieni d’ amore per la nostra terra. Le calzature dei muli erano i “ferri di cavallo” ed i migliori mulattieri erano anche un po’ maniscalchi e sapevano effettuare la “ferratura”: toglievano con le tenaglie il ferro vecchio, spianavano lo zoccolo con l’ “incastro”, tagliavano le unghie eccedenti e le grattavano con la raspa. Quindi applicavano il ferro nuovo inchiodandolo allo zoccolo con precauzione, per poi tagliare con le tenaglie la parte eccedente del chiodo ribattendola lateralmente. Il mulo poteva trasportare oltre 100 kg di peso attraverso il bilanciamento della soma sul basto. Esso era una sella rozza e larga di legno dotata di un’imbottitura, composto da un’armatura portante costituita da due arcioni dove erano ricavati dei fori per l’ancoraggio di corde e catene, necessarie per ancorare la soma. Era corredato da una cinghia e degli straccali per renderlo solidale alla bestia. Nel mio paese c’era un signore che li costruiva, si chiamava Flaviano, detto “lù ‘mmastare”. Per costruirne uno ci volevano giorni di lavoro, legno di faggio, tela, liuta, paglia, pellame e pelo di animale e molti attrezzi, quali: l’ascia, la raspa, la pialla, lo spago, il martello, la trivella. Per caricare la soma su di essi era necessario aiutarsi con una speciale forca di legno detta “caricatora”, lunga un paio di metri che nella parte finale aveva un appiglio tagliato. La base della “caricatora” si puntava nel terreno, in posizione leggermente inclinata e l’appiglio si andava ad agganciare ad una corda legata nella parte inferiore del basto. A questo punto si legava la “mezza soma ” con due “jeqquere” alle “ciammelle”. In maniera analoga si procedeva al carico dell’altra “mezza soma”. Al termine si svincolavano le “caricatore” e si facevano fare alcuni passi al mulo per riequilibrare la soma. L’esperienza insegnava che la soma si aggiusta strada facendo ed i vecchi mulattieri erano bravissimi a bilanciare la soma sul basto usando anche schiazze d’arenaria come contrappeso. Per scaricare all’ opposto si slegavano prima gli “jeqquere” e infine la corda detta “susta” che faceva venire giù il carico. I muli trasportavano la legna e le fascine, le reti del fieno, le bigonce della vendemmia, i sacchi di carbone. Erano usati anche dai montanari impegnati nella cura e nella raccolta dei castagneti. Essi ripulivano le piante malate dai rami secchi, il terreno da felci, sterpi e erba alta che accuratamente rastrellati venivano bruciati o ammucchiati ai bordi dei pendii. Ad inizio ottobre, una volta maturati i ricci, battevano i rami con una pertica per farli cadere a terra, raccoglierli in ceste e ammucchiarli formando le “ricciere”: cumuli di ricci coperti da terriccio e foglie. Quando si avvicinava il “mercato di San Martino “esse venivano scoperte e si battevano i ricci essiccati con i rastrelli per far uscire le castagne. Chini a terra velocemente si riempivano i sacchi, facendo attenzione alle infide spine che si infilavano dolorosamente tra le unghie. I sacchi venivano caricati sui muli che sfilavano sui sentieri verso il paese. I nostri antichi e stretti sentieri sono stati attraversati per secoli dagli zoccoli ferrati dei muli che ne hanno marcato i solchi. Salire, scendere, risalire e riscendere ancora, all’infinito. Sulle piene, sulla terra, sui declivi erbosi, sui ciottoli, nel fango. Mulo e mulattiere, un binomio antico, segnato dalla fatica, dal silenzio rotto solo dal rumore degli zoccoli e delle imprecazioni del conducente. Un mestiere scomodo ma affascinante che andrebbe riscoperto e rivalutato perché naturale e non inquinante.
Vittorio Camacci