Ormai da diversi anni si è consolidata l’usanza di accendere le luminarie quasi un mese prima delle feste natalizie. Per prima cominciano i centri commerciali, non disinteressatamente, montando giganteschi alberi di Natale illuminati da migliaia di luci colorate, poi è la volta delle amministrazioni comunali che pensano ad addobbare strade e piazze, infine la gente comune che si sbizzarrisce in mille modi, negli ultimi tempi vediamo anche panciuti Babbi Natale , a grandezza naturale, nell’atto di arrampicarsi su per le grondaie o scavalcare finestre e balconi. Tutto questo è bello e fenomenale ma cosa a che vedere con le nostre tradizioni? Babbo Natale o Santa Claus insieme all’Albero, non a caso un abete, sono tipici della tradizione culturale del nord-europa, e da qui furono esportati negli Stati Uniti, dove subirono modifiche. Ad esempio il vescovo San Nicola che diventa Santa Claus, prima vestito di verde poi di rosso per una pubblicità di una notissima bibita multinazionale. Tutta questa modernità, che segue le tradizioni popolari di altri paesi, non è completamente negativa ma minaccia di cancellare o sostituire la nostra tradizione autoctona e millenaria in nome del consumismo, il più pericoloso demone insidiato nel progresso. Non dimentichiamo che la nostra tradizione è il presepe che, nel nome derivante dal latino significa greppia, mangiatoia. Questa usanza ha origini antiche e risale ai riti pagani degli antichi romani. Infatti, nella Roma pre-cristiana era molto sentito il culto dei morti, i lari, ossia i componenti dello stesso nucleo familiare che una volta passati a miglior vita venivano riprodotti in statuette di argilla o cera , chiamate “sigillum” e posizionati in piccole nicchie con il compito di proteggere i vivi della famiglia. Ogni anno in occasione del solstizio d’inverno ( 21 dicembre ), avveniva una festa per ricordarli chiamata “Sigillaria” in cui i bambini avevano il compito di pulire e lucidare queste statuette per poi posizionarle in un paesaggio di loro fantasia, il mattino ricevevano così in premio giochi e dolciumi che i genitori facevano credere fossero portati dai cari defunti. Dopo il IV secolo i cristiani fecero loro questa tradizione mantenendo data e riti, cambiandone solo il significato religioso perché la popolazione era ancora carismaticamente legata a questa data. Nel XIII secolo, San Francesco, una notte fredda del 1223, ideò a Greccio in provincia di Rieti il presepe vivente oggi particolarmente diffuso in tante località caratteristiche. L’intuizione del mirabile Santo di Assisi, che negli anni precedenti aveva cercato di compiere il suo destino in Palestina, fu quella che non era essenziale andare a morire doveva Gesù era nato ma far rinascere il Salvatore là dove noi viviamo. Così creò a tutti gli effetti una scena teatrale per far rivivere quello che viene raccontato in parte nel vangelo di Luca, in parte in quello di Marco ed anche nel vangelo apocrifo armeno dell’infanzia, vale a dire la scena della natività. Infatti presepio significa proprio questo “presepes” cioè stare davanti ad una mangiatoia, come si narra nel vangelo di Luca, poiché non vi era posto altrove Maria fa nascere il Figlio di Dio nella mangiatoia, incarnando l’ infinito in un luogo semplice ed umile. Comunque fu il Concilio di Trento nel XVI secolo ad incentivare ufficialmente la pratica del presepe ed essa così si tramandò nel tempo fino ad arrivare ai nostri giorni.  Il Natale della mia infanzia era molto diverso da quello attuale, complice soprattutto la semplice povertà in cui il mio paese viveva allora. Il nostro parroco ci istruiva sull’imminente nascita del Re dei Re, che sarebbe avvenuta in una grotta per portare la pace nel mondo. Così non ci faceva litigare durante i giochi all’aperto, non ci faceva fare i dispetti alle “femmine” e soprattutto, e questa era la cosa più difficile, ci frenava dal far sparare troppi “raudi” o “castagnole” in ogni dove. Allora, per ripiego, ci dedicavamo ad una cosa ben più importante, andavamo nei boschi di castagno a cercare muschio e scorze di legno per fare il presepe della chiesa e quello delle nostre case, sempre presente sopra i coperchi delle vecchie cassapanche. Battevamo palmo a palmo i grossi massi d’ arenaria delle “Pianelle” e delle “Martitanze”, nelle zone più ombrose, per cercare quello più soffice ed alto, che si sarebbe mantenuto verde più a lungo. Per fare il fiume usavamo la carta stagnola ( di alluminio ) che di solito ricavavamo dai vecchi incarti di dolciumi. Con i sacchetti vuoti, color marroncino, della spesa, opportunamente spiegazzati con le mani, si modellavano le rocce che un poco di farina bianca trasformava in cime innevate, popolate di branchi di pecore di gesso. Le stradine venivano fatte con la sabbia ed il brecciolino che rubavamo dai mucchi lasciati dagli spazzini comunali ai bordi delle salite del paese (veniva usato a badilate per rendere il manto stradale meno scivoloso in caso di neve e ghiaccio). La grotta era ricavata con le vecchie scorze degli alberi, la stella cometa si faceva con il cartone colorato d’ oro. Le statuine più antiche erano fatte di gesso colorato, qualcuno aveva anche preziosi pezzi in terracotta, tenuti con la massima attenzione da decenni, poi arrivarono i “pezzi” in plastica dura che si acquistavano in negozio al prezzo di tanti piccoli, faticosi risparmi. I più costosi erano i Re Magi che i più poveri allineavano appiedati mentre i più ricchi fornivano di cavalli e cammello. La notte della Vigilia si passava in casa, si mangiava un menù tradizionale: “frittiglie” farciti di broccoli e baccalà, zuppa di lenticchie con un filo d’olio, tortellini in brodo, pesce, frutta secca, arance e panettone. Dopo la cena si giocava a tombola mentre i più grandi bevevano punch al mandarino fatto scaldare a bagnomaria sopra una teglia posta sulla stufa economica. A mezzanotte si andava a messa ed appena tornati a casa facevamo a gara per posizionare il Bambinello nella mangiatoia. Nei giorni successivi aspettavamo spasmodicamente l’arrivo dell’Anno Nuovo e soprattutto quello della Befana. Ricordo con struggente nostalgia che contavo impaziente i giorni che mancavano alla notte del sei gennaio, sapevo benissimo che non ero uno “stinco di santo” e che per questo la “Vecchia” non sarebbe stata generosa nei miei confronti. Mettevo comunque una calza di lana appesa al camino ed il mattino ci trovavo inevitabilmente qualche mandarino, delle caramelle, torroni duri come pietre, cioccolata e carbone vero per le mie mascalzonate. Erano anni difficili, gli anni dell’ “austerity”, niente consumismo, niente usa e getta, niente ipermercati, niente business, insomma niente di niente ma tanta umiltà e forse umanità, valori persi per sempre. Io rimpiango quel Natale, la festa più importante della cristianità, vissuta tradizionalmente nell’amicizia e nella semplicità, sentimenti che purtroppo oggi abbiamo perso nella frenesia dei falsi miti da raggiungere.

            Vittorio Camacci