Affrontare il tema dell’amore antico non è cosa facile, esso era oscuro e debole, religioso e carnale, sentimentale e sociale basato principalmente sul guardare e non toccare. Dopo le mie ricerche solo una convinzione mi è rimasta nell’ animo: anche allora le ragazze sognavano il principe azzurro, l’abito bianco, i figli, perché alimentare le fantasie gli dava sollievo nella speranza che le loro vite avrebbero potuto essere differenti da quelle delle loro madri. Una volta a scuola, nelle chiese, nei luoghi pubblici, donne e uomini erano tenuti a stare divisi, non vi era dunque grande possibilità di scambiarsi o opinioni e parole e ci si accontentava di darsi occhiate fugaci. La parità dei sessi non era cosa conclamata come oggi ed era inconcepibile sfuggire ad una mentalità bigotta ed oscurantista. Le ragazze quando non andavano a lavorare nei campi o a pascolare le bestie dovevano aiutare le madri nelle faccende domestiche e quando uscivano per recarsi ad attingere acqua alle fontane con le conche  o a lavare i panni nei ruscelli erano quasi sempre accompagnate. La formazione delle coppie, essenziale per la continuazione della specie, era regolata da rigidi rituali che tenevano conto dell’estrazione sociale, del paese d’origine e della posizione economica degli individui, sia maschi che femmine, all’interno delle comunità. Il sesso femminile era sempre succube di quello maschile, la donna era considerata inferiore, addirittura priva di una sua volontà, una specie di soggetto animato a totale disposizione dei capricci dell’ uomo. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, il mondo femminile, soffocato da secoli di segregazione sociale riuscì ad ottenere un riscatto ed una piccola autonomia anche se lo fece tra mille asperità e con una lentezza esasperante perché millenni di oscurantismo non si possono cancellare facilmente. Così negli anni cinquanta si videro le prime ragazze frequentare le scuole medie e superiori mentre altre cominciarono a lavorare fuori casa. Nelle nostre zone questo progresso tardò ancor più ad arrivare frenato da mille pregiudizi. L’occasione di incontro tra i due sessi era ancora sporadico, legato al lavoro dei campi, come la vendemmia, la mietitura, la pastorizia o la raccolta delle castagne e si approfondiva in chiesa durante la messa domenicale e dei giorni festivi dove, mentre con la testa si pregava il Signore, con gli occhi e con il cuore si era altrove. Molte erano le usanze che accompagnavano l’accoppiamento, importante fase del ciclo della vita. Esse venivano tramandate di generazione in generazione, svelando quando la collettività partecipasse attivamente alla formazione di nuove coppie. Per le ragazze in particolare, la Notte di San Giovanni, densa di proprietà prodigiose, era la più propiziatoria per conquistare il futuro marito. Le più spregiudicate si recavano nei prati per bagnarsi nude nella rugiada mentre le più costumate si lavavano con pudore nell’ “acqua rosata” fatta con acqua di fonte in cui erano immerse piante di artemisia, verbena, iperico, spighette di lavanda, rose canine, “erba della Madonna” e foglie di noci, malva e sambuco, in tal modo pensavano così da accrescere la loro bellezza e la loro desiderabilità. Consumato questo rito lasciavano fuori dalla porta una bottiglia con del chiaro d’ uovo sbattuto per vedere al mattino i pronostici sul futuro sposo, dalla forma assunta dall’ albume si sarebbe capito il mestiere del fidanzato: un allevatore se si fosse visto un’ animale domestico, un contadino se si scorgeva un utensile agricolo, un boscaiolo se il risultato sembrava un’ ascia oppure un oggetto che indicava un evento significativo del futuro; ad esempio : una nave poteva significare sposarsi per procura oltreoceano. I sogni delle ragazze non sempre si avveravano anche perché i fidanzamenti di giovani di paesi diversi erano piuttosto rari, ciò era dovuto all’ ostilità che i ragazzi di ogni paese avevano nei confronti di chi veniva da fuori a prendersi le fanciulle delle loro contrade come se facessero un furto di un loro bene. Talvolta scoppiavano delle risse e avvenivano delle vere e proprie “cacce” contro gli spasimanti che venivano da fuori. Questa “chiusura” al forestiero contribuiva ad alimentare il vecchio lavoro dei sensali di matrimonio volgarmente detti “ruffiani” che fomentavano l’antico e attivo mercato che decideva la formazione delle coppie. Questa figura, di solito una donna o un’ anziano di rilievo, su incarico dei genitori pianificava l’ unione tra due giovani, magari di due paesi diversi, senza che questi si conoscessero e soprattutto senza tener conto della volontà degli stessi. Malgrado tutto questo, c’ era un momento in cui ci si poteva affidare alla conoscenza più fisica e queste erano le feste di paese. Antenate delle moderne discoteche, in quei tempi nascevano come funghi, magari per qualche ora e con la stessa rapidità sparivano quando i caporioni del villaggio iniziavano le risse e le baruffe in preda ai fumi dell’ alcool. Si facevano nelle piazzette del paese o in caso d’ intemperie nei magazzini e nelle cantine più voluminose, “rabbrecciate” alla meno-peggio. La musica era prodotta spesso da una fisarmonica o un’ organetto. Le ragazze erano sorvegliate a vista da un famigliare o da un parente al quale si doveva rendere conto nel momento di chiedere il ballo che poi, in caso di risposta affermativa, si doveva eseguire senza stringere ed a distanza di sicurezza pena l’immediata entrata in pista del sorvegliante. Successivamente anche il fidanzamento era sottoposto a rigidi rituali, in cui, ovviamente, la ragazza era la più penalizzata. Se per incompatibilità di carattere lo rompeva, era additata come “leggera” e quindi condannata ad essere “chiacchierata” e di conseguenza ad avere difficoltà a non restare zitella. Dopo un breve periodo il ragazzo doveva presentarsi con i genitori in casa dell’ amata chiedendone ufficialmente la mano. Se il permesso era accordato poteva considerarsi “fidanzato in casa” e gli era concesso di venire a trovare la fidanzata una o due volte a settimana: “a fare all’ amore” come si diceva allora. Al contrario di quello che questo detto può far pensare, questo “fare l’amore” consisteva nello stare seduti vicini accanto al camino, sorvegliati a vista dai genitori o dalla nonna di lei. Un vecchio detto dice che l’amore e l’acqua nessuno li può fermare ed il fidanzamento di quegli anni lo conferma. Comunque, tutto questo era a volte una parvenza, perché i nostri paesini, all’epoca rurali, erano pieni di fienili. Questi erano di due tipi : uno era composto da un semplice palo piantato a suolo, intorno al quale si ammucchiava il fieno, mentre l’altro era un caseggiato in pietra e legno, di solito sopra una stalla, in cui si ammassava il fieno trasportato con le reti da soma. Oggi, dalle nostre parti, quasi tutti sanno che oltre la metà dei bimbi nati in quel tempo sono stati concepiti in questo tipo di pagliaio. Questo, adesso, sembra direttamente uscito dalla fantasia di Pietro Germi che sulle nostre montagne s’ispirò e diresse il film “Serafino” , invece era l’unico modo in cui i due sessi si potevano rapportare più di cinquant’anni fa. Tante ragazze di oggi pensano che la loro libertà sessuale sia sempre esistita, invece è stato un diritto conquistato duramente, vorrei ricordare loro che il delitto d’ onore ovvero l’ impunità data al solo coniuge maschio di uccidere moglie e amante colti in flagrante è stato abrogato solo nel 1981, come raccapricciante fu il parere di un giudice in un processo di stupro nei primi anni sessanta:  “D’altronde se l’ ago non lo tieni fermo, come fai ad infilare il filo nella cruna!”

 

N’IN POZZE ARIPUSE’

N’in pozze aripusè

oh bella mì

penzenne a te

n’in tenghe più tristezza

dentre a lu core

n’in tenghe dispiacire

‘u cattive pinzire

ti giure che

voglie sole a te

voglie sole a te, sole a te.

Putesse esse palomma

‘u nu cillitte

vulesse su lù cile

a pigliette lù sole e li stelle

pì fatte stà cuntenta

e ppe dispensatte sole bè, sole bè.

Ni’n pozze cambà più

senza vedette

e nem’ basta la bella Natura.

Ti giure che voglie sole a te

voglie sole a te, sole a te.

N’in pozze aripusè

oh bella mì

N’in pozze aripusè

oh bella mì

penzenne a te,

penzenne sole a te.

Vittorio Camacci