(In questo racconto ci sono riferimenti a pratiche curative arcaiche e popolari, pertanto è nostra premura avvertire i gentili lettori di non ripetere o replicare tali ricette perché alcune di esse non hanno nessun riscontro nella moderna medicina e sono assolutamente inefficaci se non dannose).
Oggi le condizioni di vita in montagna sono nettamente migliorate rispetto a tanti anni fa. Per curare la salute si usano farmaci creati dalla moderna medicina anche grazie ai balzi tecnologici della chimica e della ricerca scientifica. Senza andare troppo indietro nel tempo, una volta per difendersi dalle malattie, la gente di montagna poteva fare ben poco, se non cercare un rimedio tra le erbe e la magia. Infatti non era raro che ai rimedi di erboristeria venissero affiancati quelli di stregoneria. Quando la malattia non rispondeva a nessun tipo di cura tradizionale, si pensava che il malato era oggetto di un malocchio, lasciato da qualcuno che voleva il suo male, perciò si andava da una “mammana”, “magara”, “strollega ” o da una “virtuosa” che gli segnava il malocchio, ossia faceva un rito di magia bianca per esorcizzare il male. Le protagoniste di diagnosi e cura della “fascinazione” erano quasi tutte donne e la loro ” virtù ” o proprietà curativa era dovuta ad effetto carismatico (per nascita) o per ” eredità ” (quando era stata trasmessa loro da qualcuno). A quelle nate con la “virtù”, di solito segnate da una croce sul palmo della mano, per disfare il malocchio bastava toccare con la mano il soggetto vittima della fascinazione; mentre quelle che avevano ricevuto la ” virtù” in eredità dovevano recitare formule e compiere operazioni con il metodo della lecanomanzia che adoperava acqua, olio e chicchi di grano. Erano abilissime anche nella preparazione degli amuleti detti ” brevi “: di solito sacchetti di stoffa cuciti con dentro immagini sacre, foglie d’ ulivo benedetto, gocce di cera di candele benedette, ” le polverine di Santa Rita ” fatte con i petali essiccati delle rose di Cascia, sale grosso di Mozzano, pelo di tasso, dente di lupo, di cinghiale o di cane, pizzichi di terra dei “crocestrada”, chiodi di ferro di cavallo, salvia. Anche le suore di Cascia preparavano dei sacchetti chiamati ” divozioni “, erano di colore rosso ed usate nei neonati rigorosamente dopo il battesimo. “La divozione” conteneva: pezzi di cero pasquale, grani d’incenso, una medaglietta della Madonna di Loreto, un grano di corallo e pasta di lievito. Le “virtuose” erano bravissime anche ad individuare o cacciare le streghe mettendo un pettine dentro l’acquasantiera, agitando ossi o stringhe di pelle di cane, mazzi di felce o mettendo sul davanzale due forchette incrociate. In passato era credenza che le streghe praticassero il vampirismo sui neonati entrando in casa dal camino, dalla “jattarola” o dal buco della chiave. Per evitare che le streghe entrassero si usavano allora degli amuleti come scope di saggina dietro le porte, sette acini di corallo donati da sette vergini appesi al braccio sinistro del bimbo, pezzi di carbone benedetto sulla culla o addirittura si seppellivano tre cagnolini sotto l’uscio delle case. Per liberare i neonati dai vermi tracciavano sul bambino dei segni di croce poi gli passavano una mano sul corpo pronunciando una speciale formula, invece per evitargli il mal caduco al momento della nascita gli applicavano sulla nuca un carbone incandescente di legno di vite. Avevano anche un metodo per evitare che le serpi gettassero l'”afa” alle lattanti per succhiare il latte. La serpe considerata più pericolosa era “lu bascialische”, un essere fantastico che si credeva nato da un uovo deposto e covato da un gallo di oltre tre anni ed il cui sguardo poteva uccidere una persona. Le malattie più comuni di quei tempi erano principalmente di due tipi: gli infortuni dovuti al duro lavoro dei campi e le malattie gastro-intestinali e polmonari. Gli indumenti erano grossolani, le case piene di spifferi, malamente riscaldate da camini o stufe, posizionati di solito in cucina con conseguente balzo termico tra questa e le altre stanze della casa, specialmente le camere da letto, generava spesso malattie bronco-polmonari dove ovviamente i più fragili i vecchi e i bambini erano i più colpiti. Le malattie intestinali invece, erano frequenti per le scarse norme igieniche del tempo. Le case erano prive di bagno, si usavano le stalle e gli orinali. Lo scarico dei lavabi delle cucine avveniva spesso in fogne a cielo aperto, che nei mesi estivi favorivano l’insorgere di infezioni. Il bagno personale era effettuato con brocche e catini e l’acqua calda spesso era usata da più famigliari contemporaneamente. L’ acqua corrente non esisteva, era prelevata alle fonti con le conche, contenitori di rame portati dalle donne in equilibrio sulla testa con strofinacci arrotolati detti “roccie”. Nelle case era facile la contaminazione da agenti patogeni dato che l’acqua veniva prelevata da tutti i componenti della famiglia con un mestolo. Anche la conservazione dei cibi era difficile, i frigoriferi non esistevano, burro, latte, carne si consumavano il prima possibile e solo nei mesi invernali si potevano conservare meglio, di solito fuori dalle finestre. Le ” virtuose “, le “mammane”, le “magare”, ” le patriarche” o le “stroleghe” curavano tutto con le erbe, la credenza voleva che esse in base al colore ed al sapore avevano potere su alcuni organi : il giallo con il sapore dolce, curava la milza ; rosso con il sapore amaro, curava il cuore; verde con il gusto acido, era ottimo per il fegato; nero con il salato, era un toccasana per i polmoni. Solo esse sapevano le quantità e le dosi di somministrazione e si occupavano personalmente della raccolta e dell’essiccazione di erbe medicinali. Di solito per cistiti e infiammazioni del tratto urinario si usava il tarassaco e le foglie di corbezzolo. L’aglio era usato per la pressione arteriosa e come disinfettante intestinale. Quando i bimbi avevano i “vermi”, ovvero i parassiti intestinali, oltre alla “segnatura” gli venivano appese al collo collane d’ aglio e si somministrava a loro succo di mentuccia selvatica. La crosta lattea dei neonati, insieme al morbillo, alla rosalia, all’ acne ed a altre malattie della pelle venivano lenite con impacchi di bardana mentre per l’arrossamento del sederino si ricorreva alla farina di granturco miscelata e sbattuta con olio d’ oliva. Per le ferite e le scottature era d’obbligo un impiastro d’ iperico (volgarmente detta “erba di San Giovanni”), somministrato insieme alla passiflora esso calmava anche gli stati d’ansia. La malva era usata come emolliente ed antinfiammatorio, i semi di finocchio per i gonfiori addominali, la camomilla contro la congiuntivite e come calmante, la salvia contro i dolori mestruali, la liquirizia come sfiammante ed espettorante, l’ artiglio del diavolo e le bacche del pungitopo contro dolori muscolari ed articolari, l’ infuso di ortica ed di sambuco contro la gotta, la borragine o “polmonaria” il cui infuso era ottimo per la tosse e per lenire l’ artrite, la frunnusella o “Erba della Madonna” combatteva il gonfiore di stomaco ed il meteorismo, l’ assenzio maggiore ovvero l’ Artemisia Absinthium era la più versatile, infatti veniva usata per ripristinare le funzioni digestive e cardiotoniche, come antinfiammatorio, antispasmodico, febbrifugo, antisettico e vermifugo, i “myosotis” non ti scordar di me” o la genziana verna erano il simbolo della salvezza dal dolore, usati anche per i medicamenti degli occhi, la belladonna era la pianta con effetti potentissimi ma era anche la più pericolosa perché contenente un alcaloide: l’antropina che poteva avere effetti letali. Essa veniva usata per malattie gravi ma anche per causare allucinazioni da cui derivavano proprietà chiaroveggenti e premonitrici. Le dosi da prescrivere erano rigorosamente custodite e conosciute da pochissime curatrici, le migliori. A volte i rimedi sfioravano l’assurdità o la ridicolezza: per una ferita infetta si ricorreva alla ” scottatura ” (si immergeva la parte suppurata in un recipiente contenente acqua bollente e sale) poi si raschiavano la forfora ed il sudore incrostati in un cappello e si metteva l’impiastro sulla ferita. Per fermare la fuoriuscita di sangue si usava come emostatico un batuffolo di ragnatela impregnato di cardo pestato. Un mattone caldo veniva avvolto in un panno di lana e posizionato sul petto per facilitare lo scioglimento del catarro. Un brufolo che non usciva fuori (lu cicure ciche) si curava con un impacco di foglie di sambuco e lardo. Si credeva che una pezzuola bagnata d’ aceto stretta intorno alle tempie fosse utile per il mal di testa o la lama di un coltello premuta su un bernoccolo fosse in grado di fermarne la crescita. Vi erano poi rimedi ” magici “assurdi come fare il segno della croce con un ciuffo di verga d’oro per fermare il dolore di un ematoma o curare l’”orzaiolo” guardando l’imboccatura di una bottiglia d’olio e poi passare ripetutamente un filo da cucire benedetto sull’occhio. Contro la puntura di una vespa o di un calabrone si premeva sulla ferita la chiave di una cantina o della stalla. Decisamente più utili ed efficaci erano i massaggi con acqua e sapone sulle distorsioni che poi venivano bloccate con fasce di neonato imbevute di bianco d’ uovo mischiato a fuliggine (la chiarata). A questo metodo ricorrevo in prima persona per i miei frequenti traumi sportivi, datosi che da ragazzo ero portiere di calcio, l’ho sempre preferito al ricovero in ortopedia e posso testimoniare che le specialiste di quest’ arte curativa mi rimettevano in piena forma nel giro di pochi giorni. Le ustioni venivano curate con fette di patata, lardo e strutto o olio d’ oliva e bianco d’ uovo poi venivano fasciate saldamente. Per procurare aborti si consigliavano decotti di prezzemolo, salvia, caledonia, capelvenere, ruta o sambuco. Per i geloni si usava lo strutto e come purgante corbezzoli e olio di ricino, mentre per far uscire il “sangue cattivo”, ritenuto responsabile di mal di testa e svenimenti si usavano le sanguisughe. Molti rimedi erano peggio del male, come il bruciore di stomaco che doveva essere curato ingoiando una lumaca viva, priva del guscio, perché si credeva che la sua bava fosse curativa. Quando le scarsissime norme d’ igiene dentali di un tempo, innescavano il terribile e dolorosissimo ascesso dentale, esso veniva trattato con chiodi di garofano, decotti di malva, sciacqui di liquore altamente alcoolico, sale grosso e propoli ed a volte persino trinciato forte; quindi con un ago si favoriva l’uscita del pus. Completava il lavoro un “cavadenti” artigianale che con una pinza toglieva il dente cariato senza anestesia. Tante volte ciò che funzionava era il solo effetto placebo e questo, purtroppo, di controtendenza aumentava le false credenze. Chiamare il medico, soprattutto per ignoranza e ragioni economiche, era considerata l’ultima spiaggia così come il ricorso al ricovero ospedaliero che per pudore ed orgoglio era visto come una sconfitta. D’ altronde la malattia era accettata con rassegnazione, preventivata, un semplice intoppo nel corso della vita. Si giungeva così ad un paradosso, si rischiava la vita per scarsa fiducia nella medicina, oggi forse succede la stessa cosa, ma per ragione opposta: si è portati a credere che i farmaci siano la panacea assoluta, un rimedio senza rischi e magari alla fine c’ è un abuso di essi.
(La mia passione per la storia mi ha spinto questa volta su un argomento che da sempre è questione di discussioni. Devo ammettere che questa volta le mie ricerche sono state difficili ed a volte mi hanno turbato se non sconcertato, volutamente ho preferito tralasciare la trascrizione di formule magiche, le fatture amorose, di affari, contro i nemici ed i gesti delle “segnature” per evitare l’uso improprio di atti di magia bianca, pratica pericolosa condannata e combattuta sia dalla Chiesa che dalle autorità sanitarie. Per ultimo vorrei sfatare un fatto incredibile che da sempre viene raccontato dai vecchi del mio paese: il possesso da parte di un operatore terapeutico tradizionale detto “Lu Prutestante” di un libro magico con il quale egli prevedeva anche il futuro. Si trattava del cosiddetto ” Libro del Comando ” oggetto ben noto all’ etnografo impegnato nello studio delle tradizioni popolari dell’Italia centrale. In realtà tale libro non esisteva, era il credo di un tema affondava le sue radici nei celebri grimoires medievali. Un povero montanaro non poteva leggere o conoscere le lingue latine o ebraiche con cui erano scritti questi libri. Quindi i contadini che affermavano di possedere questo libro in realtà avevano qualche vecchia copia di una Bibbia o di un trattato scritto in latino ed essi facevano finta di leggerlo proferendo poi facili conclusioni e profezie che però causavano l’ammirazione ed il timoroso rispetto da parte dei loro paesani analfabeti e di innocente candore).
Vittorio Camacci