” Loro cercan la felicità dentro a un bicchiere

per dimenticar d’ esser stati presi per il sedere

ci sarà allegria anche in agonia col vino forte

porteran sul viso l’ ombra di un sorriso tra le braccia della morte”

                                                         Fabrizio De Andrè

Nell’ antichità le epidemie venivano spesso interpretate come segno dell’ ira delle divinità, come punizione da esse inflitte agli uomini. Nelle nostre zone, lungo i secoli, si avvicendarono, oltre alla peste, epidemie di colera, sifilide, vaiolo, tubercolosi, influenza spagnola. I casi di guarigione erano rari, l’ ottanta per cento dei colpiti moriva per mancanza di giuste cure. I più colpiti erano i bambini e soltanto con la civiltà industriale, grazie agli sviluppi della medicina con vaccini ed antibiotici diventerà possibile salvarli dalla morte per malattie infettive. Certo anche a quei tempi c’ erano medici e guaritori, la loro figura era pressoché presente e quasi scontata. Ma la medicina aveva ben poco del preciso significato scientifico e sanitario cui siamo abituati oggi. Le scarse conoscenze cliniche, la mancanza assoluta d’ igiene, le infezioni erano la logica. Le epidemie erano considerate malattie della miseria : vaiolo, colera, peste. In seguito a questi eventi si intuisce e capisce che non bisogna più seppellire i cadaveri nelle chiese come era usanza allora e s’ improvvisano i primi cimiteri fuori dai paesi ed i primi lazzaretti per separare i malati dai sani. Sul finire del settecento una terribile malattia ritorna sul nostro territorio a terrorizzare la popolazione: il vaiolo cosiddetto arabo. Fortunatamente in quegli anni esisteva già il vaccino contro questa malattia, scoperto dal medico inglese Edward Jenner che aveva iniettato il materiale infetto di una lattaia ad un bambino di otto anni rendendolo immune. Il Delegato Apostolico per arginare questo pericolo inviò un avviso a tutti i comuni per effettuare le vaccinazioni contro questa malattia mediante ” inoculazione vaccina ” persuadendo il popolo con zelo per superare le difficoltà e combattere la renitenza dell’ idiotismo. Nel 1855, invece, il territorio dell’ arquatano fu nuovamente funestato dal colera, o morbo asiatico, che portò la desolazione ed il pianto in molte famiglie. Ebbe inizio l’ 8 agosto a Trisungo e terminò il 9 ottobre dello stesso anno. I decessi nella parrocchia di Borgo furono 61 ed in quella di Arquata 14. Per evitare i contagi le Esequie venivano effettuate nelle abitazioni e le tumulazioni nei rispettivi cimiteri rurali : per Trisungo e Faete nel terreno della Pievania denominato ” Corvino ” sotto l’ oratorio della Madonna della Neve, mentre per Arquata, Borgo, Camartina e Piedilama il Prato San Pietro vicino l’ attuale Tirassegno. Sembra una triste coincidenza ma, cent’ anni fa i nostri nonni dovettero affrontare un’ emergenza per certi aspetti molto simile alla Pandemia del corona-virus : l’ influenza spagnola. Questa si diffuse dall’ estate del 1918 fino a quella dell’ anno successivo, nel mondo uccise tra i 50 ed i 100 milioni di persone contagiandone oltre 500 milioni. Ad Arquata la spagnola fu portata dai soldati che ritornavano dal fronte. Le autorità sanitarie si trovarono spiazzate e si limitarono a qualche indicazione generica come bollire il latte, disinfettare i locali, togliere il letame dalle stalle ogni due giorni. La spagnola denominata “virus dell’ influenza A sottotipo H1N1″ colpiva, soprattutto individui giovani tra i 20 ed i 40 anni. Anche allora le scuole rimasero chiuse ed alcune maestre rimasero vittime dell’ epidemia. Esiste una leggenda sulla peste che racconta di quando essa si abbattette  su Grisciano, tanti secoli fa, tutti gli abitanti del paese morirono. Solo una donna riuscì a sopravvivere. Con la morte dei suoi compaesani, Elisabetta diventò la padrona incontrastata di tutte le terre intorno ma si annoiava a star sola, era brutto abitare in un paese di morti. Un giorno, stanca di star sola, sellò il suo cavallo e si recò a Spelonga passando per la Cappelletta, desiderosa di ricevere ospitalità ed affetto. Era disposta a donare tutte le sue terre griscianesi in cambio di una casa per ripararsi e delle pecore per avere il latte tutti i giorni. Giunta alla fontana delle Piane un pastore di Pigna Verde che pascolava in quella zona la vide, le si accostò e gli chiese dove era diretta. La donna si mise a chiacchierare con lui e gli raccontò la sua storia: quando era bambina era stata rapita dagli zingari, che la portarono in Abruzzo dove apprese usi e costumi del misterioso popolo Rom. Quando divenne grande tornò al suo paese ma continuò a vestire in modo strano, addobbandosi con gioielli curiosi, aveva numerosi tatuaggi ed era diversa dalle altre donne del suo paese. Il pastore la ascoltò a lungo, mentre il sole tramontava, la condusse nel suo ovile e le offrì ospitalità per la notte, la aiutò a governare il cavallo e condivise con lei pane e ricotta. Il giorno successivo, con furbizia, il pastore convinse Elisabetta a recarsi a Pigna Verde anziché a Spelonga e l’ accompagnò per indicarle la strada. Quando furono in vista del paese, il pastore le offrì la sua casa con un’ orticello, un maiale ed una capra in cambio delle terre griscianesi. Gli altri abitanti di Pigna Verde erano gelosi della fortuna del pastore e curiosavano tutto il giorno intorno il podere di Elisabetta. Non riuscivano a capire il suo modo di vivere, il suo strano comportamento, la consideravano diversa e credevano che a Grisciano tutti fossero morti per sua colpa, per le sue fatture e stregonerie. La ritenevano, infatti, una strega esperta di arti magiche, capace di incantesimi e di evocare gli spiriti maligni. Decisero allora di bruciarla sul rogo ma, appena andarono verso la sua casa con forche e zappe per catturarla essa si affacciò alla finestra e gridò : ” Unguento, unguento, fai scatenare un forte vento, scorre la terra fino al Chiarino, di Pigna Verde questo è il destino “. Fu così che il paese scomparve sotto un’ enorme frana che precipitò lungo il torrente portando anche Elisabetta ed altri innocenti sopravvissuti verso Grisciano. Così il suo vecchio paese tornò in vita mentre il villaggio di Pigna Verde scomparve per sempre.

                         Vittorio Camacci