” Un osso al cane non è carità. Carità è l’ osso diviso con il cane quando si è affamati”.

 Mi sveglio spesso prima dell’ alba quando la sveglietta fluorescente sul comodino indica che sono appena le cinque e mezza. In bagno sento che questa mattina c’è qualcosa di diverso, forse l’ aria, la luce o chissà cosa e con una certa inquietudine comincio a radermi. Più tardi in cucina apro le imposte. L’ aria frizzante della notte mi accarezza il volto e mi strappa un brivido involontario, prima d’ ispirare a pieni polmoni. Laggiù, dietro il Vettore, s’ intravede appena un tenue chiarore, tra il giallo ed il rosato, sembra che questa mattina la notte non vuole levare il suo nero mantello, così le ombre indugiano ancora. Dagli scalini delle SAE entra un gatto insonnolito, mi guarda, sbadiglia, si strofina il musetto con una zampa, poi si stira arcuando la schiena flessuosa, alza la coda e pian piano si avvia verso le Franchette. I fari di un’ auto che passa sulla provinciale per Colle tagliano come lame le ombre della notte. Un silenzio irreale regna tutt’ intorno e l’ improvviso gorgoglio della caffettiera mi distoglie dai miei pensieri. Sorseggio il caffè lentamente, assaporandone l’ intenso aroma mentre il mondo esterno comincia a svegliarsi. Nella strada provinciale cominciano a passare le prime auto, mentre un lattiginoso chiarore rende inutile la luce dei loro fari. C’ è gente che malgrado tutto esce di casa, va al lavoro, a fare la spesa, coraggiosamente affronta la quotidianità come se niente fosse. Mi vesto e decido di fare un salto a casa per accudire il pollaio. Intanto il sole si sporge dalla cresta della Pieja, come una fanciulla curiosa, ed i suoi raggi, dapprima incerti, diventano mano a mano più forti fino ad incendiare di un rosso carico il cielo che da Forca di Presta va fino a Forca Canapine. Anche se avviene tutti i giorni di bel tempo, questo è sempre uno spettacolo unico e grandioso per me. Il cancelletto, male in arnese che porta al pollaio, si apre con una lamentosa protesta di vecchi cardini arrugginiti, dimentico sempre di oliarli e qualche giorno rimarranno incastrati. Dopo aver accudito le galline e raccolto dal nido le uova mi accorgo che in questa strana notte un impalpabile velo di rugiada si è posato sugli alberi e sui prati come un sudario ed i miei passi hanno disegnato un sentiero sull’ erba come la bava argentea di una lumaca. Vado verso casa, quella inagibile, quella ” vera “, che i miei genitori hanno eretto a suon di sacrifici e che da quasi quattro anni aspetta la mano riparatrice dell’ uomo, quando un gioioso  garrire mi fa alzare lo sguardo sui fili del telefono dove decine di rondini hanno messo in scena un grazioso balletto aereo. Si posano, una accanto all’ altra ripartendo garrendo, scivolando senza peso in un cielo azzurro chiaro, per poi tornare a posarsi strofinandosi con il becco. Mentre osservo questo divertente spettacolo sento un fievole belato provenire dal capanno del legname. Mi trovo davanti, tra residui di segatura e fascine, un piccolo agnello candido, appena svezzato, di razza vissana. Chiamo al telefono mio fratello e cerchiamo di trovare in paese il padrone della bestiola. Le ricerche sono vane, nessuno dei pochi pastori rimasti la rivendica e così abbiamo deciso che è un regalo del cielo per la nostra Pasqua imminente. Mio fratello si offre di aiutarmi per ammazzarlo e spellarlo, mentre lo tiene fermo io corro in casa per prendere il coltellaccio affilato da cucina. Mi avvicino all’ animale e gli metto la mano sul muso per sollevargli la testa e sgozzarlo, ma l’ agnellino mi lecca la mano, mi fermo di colpo, scoppio quasi a piangere e gettando il coltello per terra prendo l’ agnello in braccio e lo bacio sul tenero musetto. Solo più tardi afferro il senso di quello che mi è successo, il gesto dell’ agnellino ha scatenato in me un senso di colpa e mi ha riportato nell’ anima il sentimento della pietà. Così ho deciso che l’ animale non diventerà costolette e per Pasqua mangeremo tagliatelle al sugo, uova sode e verdure. Devo confessarvi che è un piacere vederlo saltellare sull’ erbetta primaverile del prato delle Curreje ed ho premura per questo mite animale che mi ha fatto piangere e ridere insieme, adesso penso che dove non vi è pietà non può stare la felicità, prego Dio di non abbandonarmi mai e spero che un giorno nostro Signore avrà compassione per me perché le uniche entità che  conoscono la carità cristiana sono quelle che ne hanno bisogno.

                Vittorio Camacci