Il progresso e la civiltà moderna hanno esiliato i costumi dei nostri avi. I dialetti si trasformano, le canzoni che nascevano dal cuore e si cantavano nelle serenate e nei raccolti finiscono nell’ oblio e con loro vanno dissipandosi le danze antiche, le lacrime sulle tombe, le preghiere davanti agli altari dei romitori, le lotte intestine per la terra  tra paese e paese, tra famiglia e famiglia insieme agli odi e agli amori, all’ ignoto, al mistero e alla perdita della poesia della vita. Per me questa è l’ ora propizia per raccogliere le briciole della nostra antica civiltà, briciole che sono gemme come le leggende e le tradizioni. In questo modo intendo riscoprire il cuore dei nostri padri conservandone la semplicità, la gentilezza, la speranza, la fede, la prudenza e l’ amore per la terra. In questo periodo, per esempio, aspettavamo il carnevale con gioia ed esso cominciava già nel pomeriggio del mercoledì che anticipava il giovedì grasso quando la mamma si sedeva accanto al focolare per friggere le ” pizzelle da sposa “.  Noi le stavamo vicino, appena tornati da scuola, con gli occhi sul recipiente dell’ impasto che lei stendeva sulla “spianatora” per poi trasformarlo in sfoglia con lo “stinniriglie”. Una volta tagliato a rettangolini, li metteva nell’ olio bollente. La prima pizzella era la mia. L’ afferravo ancora calda, ci facevo cadere sopra lo zucchero a velo e la ingoiavo in due bocconi. Dai racconti del nonno sapevo che il carnevale aveva origini antiche. Già i remoti egizi avevano una tradizione carnevalesca con feste, riti e pubbliche manifestazioni in onore della dea Iside che presiedeva la fertilità dei campi e simboleggiava il rinnovarsi perpetuo della natura e della vita. Anche in Grecia, quasi 3.000 anni fa, tra l’ inverno e la primavera si svolgevano riti in onore del dio Bacco, signore della vita e del vino, che culminavano con le “Grandi Dionisiache”, tra la metà di marzo e quella di aprile, feste orgiastiche culmine del periodo carnevalesco. Così come nella Roma antica dove si celebravano cerimonie in onore del dio Saturno, i “Saturnali” in cui si propiziava l’ inizio dell’ anno agricolo, si salutava l’ inverno e si accoglieva la primavera e con essa la fertilità. In questi festeggiamenti non vi era più differenza tra nobili e plebei, grazie all’ uso delle maschere indossate, sovvertendo tutti gli obblighi sociali e di classe, tra cibo, bevande e divertimenti sfrenati. Nel medioevo, la Chiesa ha ridimensionato quest’ antica usanza ed ha lasciato spazio a rappresentazioni più morigerate con mascherate che culminavano con il ” processo al Carnevale” in cui si condannava a morte un fantoccio che rappresentava tutti i mali dell’ inverno passato. Di solito il fantoccio del Carnevale veniva poi messo al rogo mentre rimaneva in vita la moglie “Cecilia”  che rappresentava la Quaresima, una vegliarda baffuta con sette gambe come le settimane che separavano il mercoledì delle Sacre Ceneri con la Pasqua di Resurrezione.  La Quaresima, vissuta con lo spirito dei nostri avi, ligi all’ osservanza delle prescrizioni religiose, era un’ impresa ardua per la severità del digiuno, sia alimentare che sessuale, che durava per tutto il periodo quaresimale. I nostri nonni, infatti, spesso recitavano questa quartina esasperati  :

” Quaresima baffuta

che nin fùsse mai venuta!

Ma chi ‘cci venuta a fa?

Sole pe’ famme tribbulà! “

Purtroppo per loro, la base dell’ alimentazione, essendo abolita la carne durante il periodo quaresimale, era assicurata dalla polenta, dalle patate, dal pane, dai legumi e dalle verdure invernali. Ecco perché , a metà della Quaresima, si inserì l’ usanza di ” segare la vecchia ” esponendo un fantoccio vestito da donna , con la rocca ed il fuso, riempito con confetti e un po’ di frutta secca che poi veniva segata ed il contenuto distribuito tra i bimbi del paese. Quest’ usanza ormai persa deriva sempre dalla Roma delle origini, quando, secondo il calendario del sabino Numa l’ anno iniziava all’ equinozio di primavera dove il sole si congiungeva con l’ Ariete sacro a Marte. Quindi, qui finiva l’ anno vecchio, rappresentato da Saturno e iniziava quello nuovo col giovane Marte a cui era consacrato il primo mese dell’ anno. Infatti in questo periodo, il popolo portava in giro per le vie un fantoccio coperto di pelli colpendolo con lunghe verghe di betulla. Il fantoccio rappresentava il leggendario fabbro Mamurius, quello che aveva replicato undici copie perfette dello scudo di Numa, caduto dal cielo e pegno sacro della ” aeternitas” di Roma. Questa cerimonia, che terminava con la caduta del fantoccio nelle acque del Tevere, celebrava la cacciata dell’ anno vecchio e con essa la fine delle ore buie e le pene dell’ inverno, infatti il giorno seguente veniva celebrata la festa di Anna Perenna, divinità del nutrimento e quindi immagine della Grande Madre ridesta dopo il letargo invernale. Questo è il mondo della montagna e delle tradizioni popolari legate ai miti antichi, al duro lavoro, alla religiosità ed alle credenze dove il passato non finisce ma risorge dalle sue ceneri, come l’ ” Araba Fenice “, come i nostri antichi sentieri, le nostre vigne, le nostre chiese, i nostri monumenti e la nostra storia.

Vittorio Camacci