In una piacevole mattinata estiva decido di andare a trovare i miei anziani zii a Grisciano, paesino quasi completamente distrutto dal terremoto, ai confini tra Marche e Lazio dove risiedeva la famiglia di mia madre. Inforco la mia mountain bike e mi dirigo verso Colle D’ Arquata attraverso la strada provinciale. Dopo la salita di Piumbanare, fortunatamente la strada è solo in leggera pendenza è arrivo con il fiatone, segno evidente che ultimamente sono poco allenato, ai bordi della fontanina delle Piane, dove riempio la borraccia con acqua fresca. All’ altezza della casina di campagna di ” Purosangue”, ora parzialmente crollata per il sisma, imbocco la vecchia mulattiera della ” Cappelletta” . Oggi, alla strada che anticamente portava a Grisciano, l’ antica Grisianum, è sovrapposta inizialmente un carrareccia tracciata dai boscaioli mentre più avanti nel bosco il sentiero è ormai parzialmente sommerso dalla vegetazione e dagli arbusti, resta solo una flebile traccia che costeggia un muro a secco poderale, costruito tanti anni fa con chissà quanta laboriosità e fatica. Mi districo tra la vegetazione di un fitto bosco di cerri seguendo la tracciatura scavata nel terreno da innumerevoli passaggi nei secoli di uomini e bestie, ora percorsa solitamente da branchi di cinghiali che almeno la rendono ancora discretamente percorribile a piedi facendo scorrere la bici al mio fianco. Scendendo verso nord-ovest, mi trovo improvvisamente davanti, tra uno squarcio di vegetazione, la terrificante distruzione che ha ridotto in rovina l’ incantevole e particolare borgo di Pescara del Tronto, sotto il viadotto in riparazione della strada per Norcia. Per un’ attimo il mio cuore è straziato, ma mi faccio coraggio e proseguo nel mio cammino. Continuo a scendere verso la valle del Tronto ed attraverso un promontorio spinoso dove scorgo paletti e filo spinato tra inestricabili rovi che frenano il mio passaggio e mi fanno avanzare cauto per evitare di forare i pneumatici della mountain bike. Ma i paletti sono il segno che sto per arrivare sopra le tenute agricole di Piciacchia e Di Girolamo, miei parenti, che arrivano fin quassù a pascolare il loro bestiame. Ecco finalmente una strada più ampia tracciata dalle grandi ruote di un trattore, la seguo costeggiando una vasca di cemento per la captazione dell’ acqua ed una successiva ripidissima discesa mi porta fino ad un grande cancello chiuso da un lucchetto. Faccio fatica a scavalcarlo, dovendo passare dall’ altra parte anche la bici, ma dopo questo sforzo discendo un’ immenso prato fino alla Fattoria Piciacchia da dove sgorgo visibilmente il villaggio SAE di Palazzo , situato tra la vigna e la fattoria di mio cugino Fabrizio alle spalle della quale mi pare di sentire sgorgare il Chiarino, impetuoso torrente, che prende vita dal ” Fosso dell’ Inferno ” defluente dalla Macera della Morte, a destra di Pizzo di Sevo per poi tuffarsi alla fine del suo corso come affluente nel Tronto. Arrivo all’ altezza della Vecchia Dogana, anch’ essa ridotta ad un cumolo di macerie, mi giro e dietro un cancello di ferro , accuratamente sigillato e controllato dalle Forze dell’ Ordine, scorgo un’ enorme escavatore che effettua lavori su un vasto sito archeologico di epoca romana. La cosa mi appare come un’ assurdità ! Perché usare un mezzo pesante così poco delicato e molto distruttivo negli scavi ? Qui una volta passava l’ Antica Salaria, la stazione di posta di Ad Martis era vicinissima e la Vecchia Dogana costruita sicuramente utilizzando il materiale del sito controllava l’ antico confine con il Piceno. Mi affaccio e vedo che sono emersi muri, condotte per le acque, vasche di decantazione ed una grande cisterna a cielo aperto, è riaffiorata anche una parte di un grande mosaico. Non c’ è alcun dubbio, secondo la mia esperienza, qui, circa 2.000 anni fa, doveva sorgere una villa rustica, sommersa molto probabilmente da un’ alluvione del torrente Chiarino che l’ ha ricoperta con i suoi detriti preservandola nel tempo. Un importante regalo che il dopo-sisma ci ha consegnato, riportando alla luce questo vasto sito archeologico di più di 1.500 metri quadrati , di una di quelle che per gli antichi romani erano ” villae ” , ovvero fattorie destinate sia alla produzione agricola sia come lussuose residenze pensate per il riposo ed il tempo libero, insomma una via di mezzo tra ” villae rusticae ” e ” villae d’ otium “. Il lavoro in queste residenze era affidato agli schiavi, organizzati con disciplina militare, inquadrati da sorveglianti, schiavi anch’ essi, sotto la direzione di un vicario del padrone , il ” Villicus “. Nella villa rustica vi erano due corti ( cortes ), una interna, l’ altra esterna, ed in ciascuna una vasca ( piscina ) . La vasca della corte interna serviva per abbeverare gli animali, l’ altra per operazioni agricole, come macerar cuoio, lupini, fibre, ecc. ecc. Attorno alle prime due corti sorgevano costruzioni in muratura e formavano, tutte insieme la villa rustica in senso più ristretto, cioè la parte della fattoria dove abitavano i servi. Una spaziosa cucina al centro, le stanze da bagno per i servi, la cantina, le stalle dei buoi ( buliva ) e dei cavalli ( equilia ) . Lontani dalla cucina, rivolti verso nord vi erano i granai ( granaria ) , i seccatoi ( horrea ) e le stanze in cui veniva conservata la frutta ( oporothecae ). Adiacente alla villa rustica vi era l’ aia dove sorgevano probabilmente alcuni capannoni, come la rimessa dei carri agricoli ( pilustra ) ed il ” mubiliarum ” per il grano. Vi erano stanze da letto, l’ “ergastolum” , una specie di prigione per gli schiavi che scontavano una mancanza ed il “valetudinarium” per gli schiavi ammalati. La villa rustica, presente principalmente nell’ Italia Centrale, era la forma più produttiva, più originale, efficiente e razionale che l’ economia romana abbia prodotto. Sicuramente qui le produzioni erano differenziate : piantagioni di vite, coltivazioni intensive di cereali, orti, pascoli, impianti di trasformazione, depositi, mezzi di trasporto. Si trattava insomma di una vera fabbrica rurale organizzata. Mentre continuo a fantasticare non mi accorgo che si è fatto tardi, mi stacco a fatica dal cancello e passo a salutare i miei zii. Stranamente la salita verso Spelonga, con il rapporto agile, oggi mi è parsa più leggera, forse perché ho immaginato ad occhi aperti che in quelle rovine hanno vissuto i miei avi.

Vittorio Camacci