Raccontare le storie dei miei nonni, rivisitare i luoghi della mia infanzia, questo sentire umilmente la voce di un mondo che non c’è più, non solo mi fa rivivere emozioni e stati d’animo di una volta, ma mi permette anche di capire meglio l’antica civiltà delle mie terre, mi consente di assimilare con maggiore consapevolezza la ” lezione ” del passato, aiutandomi nel futuro cammino di questi tempi difficili : una bussola per districarmi meglio nelle falsità dell’ odierna società.

La famiglia di mia nonna materna, Angela Piciacchia di Pescara del Tronto, possedeva estensione terriere a sud della Piana di Castelluccio, residuo di antichi diritti acquisiti dopo controverse battaglie legali. Sin dai tempi più remoti i confini tra le terre arquatane e quelle norcine erano stati sempre terreno di scontri, a volte anche sanguinosi per contendersi il cosiddetto ” Pian Perduto ” , fertile e rigoglioso piano carsico di terre d’altura. Qui il mio bisnonno Vincenzo, che era un buon massaro, coltivava grano tenero antico senza ibridazione ( Solina, Rosciola, Casorella ) o grano Biancola con ibridazione antica , cicerchia e lenticchie più farchie e reveglie per le bestie. Finiti i lavori estivi, intorno al paese, verso la fine di luglio tutta la sua famiglia si apprestava ad effettuare una lunga traversata, che poteva anche impiegare tre giorni di cammino a piedi e con i muli verso il Piano passando per ” La Cerqua Prena” e risalendo le antiche forre del ” Fosso della Crapara ” fino a valichi di alta montagna per poi scendere attraverso ” Macchia Cavaliera ” al loro casale sulla piana dove avrebbero poi soggiornato per più di due mesi insieme ad altri poveri mietitori stagionali marchigiani che, una volta terminato il lavoro nelle basse colline della Valle del Tronto risalivano in un vecchio tracciato la Valle del Fluvione per continuare il lavoro come braccianti agricoli nella piana di Castelluccio o di Norcia. Questa via era chiamata ” Il Sentiero dei Mietitori ” ed uno dei passaggi obbligatori per questi poveri lavoranti era il Santuario di ” Santa Maria in Pantano “, ai piedi del Vettore, nell’ Alto Montegallese raggiungibile attraverso il ” Sentiero dei Mulini ” . Qui ci si soffermava in preghiera e si ritempravano le forze raccontando storie come quella del vicino paese di Casale Vecchio, che si trovava a circa 500 metri dall’abitato dell’ odierna Colle. | [ Era un freddo e nevoso inverno e l’ implacabile montagna riservò un triste destino al villaggio dove era morta una bambina ed un ragazzo fu mandato a suonare la campana nella vicina chiesa di Santa Maria della Neve, risalente al 1580, per chiamare i paesani alla veglia della piccola. Un’ improvvisa folata di vento investì il paese ma nessuno riconobbe ” l’ ario “, lo spostamento d’aria provocato dal distacco della valanga. Segui un boato ed un’enorme massa di neve si staccò dal Monte Torrone investendo tutto il paese lasciando miracolosamente intatta la chiesetta cinquecentesca e la casa dove erano tutti accorsi per vegliare la salma della bambina. I soccorritori e gli spalatori, reclutati in gran massa nelle altre frazioni di Montegallo, pensarono ad un miracolo della Madonna della Neve che grazie al sacrificio di una piccola innocente salvò quasi tutto il paese. Infatti si contarono ” solo ” otto morti ed il villaggio diventò un ” borgo fantasma”, pieno di rovine, perché il nuovo paesino venne ricostruito poco distante in una zona più sicura e fu chiamato ” Casale Nuovo “. ( Una triste storia simile a quella della tragedia di Rigopiano nel gennaio del 2017 ). | ] Dopo la sosta a Santa Maria in Pantano si raggiungeva Colle Pisciano lasciandosi alle spalle l’ Alta Valle del torrente Fluvione e da Passo del Galluccio ci si affacciava sulla Valle del Tronto, con lo sguardo che spaziava a sinistra sui Monti della Laga, si proseguiva sui versanti rocciosi del Vettore, martoriati anch’ essi dalle valanghe, passando sotto ” la Grotta delle Fate” fino a raggiungere , finalmente, con ampie svolte Forca di Presta.

Il lavoro sulla Piana iniziava di primo mattino, dopo aver dormito tutti insieme in un ampio stanzone del casale, e finiva la sera molto tardi. Dopo una frugale colazione mattutina, i mietitori in fila afferravano con una mano una manciata di spighe, la falciavano con ” lu serricchie ” e pian piano formavano ” li manucchie ” legandoli con steli di grano intrecciato chiamati ” vazze “. poi con nove, tredici o diciassette ” manucchie” si faceva la ” cavalletta “, a forma di croce, con le spighe rivolte verso il centro per proteggerle da eventuali temporali estivi. Finita la mietitura i ” manucchie ” venivano trasportati con le traglie nell’ aia del casale dove i chicchi venivano separati dalla ” cama ” attraverso una trebbiatura manuale ottenuta con la battitura dei ” fiaviglie” e con gli zoccoli dei muli. Tutti avevano in mano forche, rastelli e forconi e facevano alzare la paglia, quello che restava nei lenzuoli a terra veniva ulteriormente ” scamato” a mano e riposto nei sacchi trasportati poi a Pescara del Tronto dai fratelli di mia nonna ” Pedecuzze ” e ” Paulucce ” sul dorso dei muli. La sera dopo aver terminato la dura giornata lavorativa si cenava tutti insieme sull’aia mentre si raccontavano aneddoti, favole, indovinelli e se c’era un’ organetto si creava anche l’ occasione per ballare il saltarello. C’era sempre qualche giovane che malgrado le fatiche dei campi aveva ancora la forza e la volontà di ballare. | [ Tra i tanti mietitori incontrati in quelle circostanze, mia nonna Angela ricordava particolarmente una donna del suo paese che si chiamava Ersilia, era una zitella dalle tante qualità : umile, servizievole, affettuosa, discreta, precisa, sicura ed affidabile. Tutti gli anni si rendeva disponibile per la mietitura della famiglia di Vincenzo Piciacchia, pronta per tutte le incombenze dove poteva guadagnare qualche denaro. Aveva lavorato tutta la vita, senza mai fermarsi, sia per curare il suo piccolo orto, dal quale ricavava tutte le varietà di verdure e legumi che le servivano per i suoi miseri pasti, sia come operaia nella mietitura, nella raccolta dell’ uva, delle castagne. Insomma tutte le attività manuali del ciclo dei lavori agricoli. Frequentava spesso la casa di mia nonna ed a volte restava a mangiare, sempre seduta in disparte sulla punta di una sedia, in un’ angolo ed in evidente imbarazzo. Tutti i soldi che guadagnava con la stakanovista dedizione al lavoro erano accuratamente messi da parte, lira su lira, con la rinuncia di qualsiasi spesa voluttuaria come quella degli abiti. Infatti amava vestire i panni usati messi da parte da quelli che conosceva ed aiutava nei campi. Quando, finalmente, le assegnarono la pensione, non cambiò per niente il suo stile e tenore di vita, continuando con le sue rinunce, con la sua perseverante parsimonia. Una sera, però, le accadde una sfortuna che cambiò la sua vita in modo irreversibile : controllando il buco nel muro dove teneva i suoi risparmi , si accorse con orrore che il fascio di banconote che conservava gelosamente era diventato un mucchio di carta straccia, rosicchiata dai topi. La consapevolezza di aver dedicato inutilmente tutta la vita al lavoro ed al risparmio la fecero cadere in un profondo stato di prostrazione : non mangiava più, non parlava più, non riusciva a dormire, non interagiva più con nessuno. Rimaneva seduta davanti la sua casetta con il solito fazzoletto scuro sul capo, con lo sguardo perso nel vuoto, le mani in grembo, inerte, insensibile e muta , ormai ignara di ciò che la circondava, estranea anche a se stessa. Uno scricciolo di donna, un’ombra raggomitolata su se stessa che aspettava la morte. ( Un’altra triste storia simile a quella della casa distrutta a Pescara del Tronto nel terremoto del 24 agosto del 2016 dove morirono moglie e marito lasciando murato nelle intercapedini un ” tesoro ” in oro e gioielli di grande valore ) . |]

Vittorio Camacci