La mamma aveva un diavolo per capello, stava friggendo le castagnole, doveva stare attenta che non bruciassero. Poi le depositava in una ciotola, sopra un foglio di “carta paglia” e le cospargeva con l’Alchermes e lo zucchero. Io le ronzavo attorno per assaggiarne qualcuna e le davo fastidio. “ Spostete, jii cùmma la pala de lu furne, sempre llà mizze” ! Mi diceva. Per friggere usava lo strutto che era conservato in una vescica di maiale appesa ad una trave della cucina. Nella nostra famiglia, infatti, avevamo ammazzato il maiale da circa un mese e la vescica era il contenitore ideale per lo strutto, serviva per friggere e per cucinare un po’ tutto, L’olio d’ oliva della montagna. Quando si ammazzava il maiale il nonno era nervosissimo e si metteva a bollire l’acqua nei bidoni, accatastando ceppi di legna e fascine sul fuoco. La sera prima aveva preparato una grande sporta con una decina di coltelli affilati, di tutte le dimensioni. Una volta ucciso il maiale veniva posto sopra delle balle di paglia e gli si gettavano addosso secchiate d’acqua bollente, per ammorbidire le setole che poi venivano asportate raschiando con i coltelli. Successivamente l’animale veniva appeso a testa in giù e diviso in due parti con la mannaia, gli venivano asportate le budella e la vescica che venivano lavate e rilavate dalle donne per poi essere immerse nell’ aceto. Sarebbero servite successivamente per insaccare la carne e, appunto, per contenere lo strutto. Le due mezze parti, dopo essere rimaste, su dei tavolacci, per alcuni giorni ad asciugare, sarebbero diventate con le “ ‘mmasciate” : salami, salcicce, cotechini, pancetta, lonze, costolette, strutto, coppa, prosciutti, spallette e ossa da consumare a breve. I salumi venivano poi appesi al soffitto della cucina con lunghe stanghe a stagionare ed affumicare. Il profumo era indescrivibile e particolare difficilmente replicabile al giorno d’oggi. Finito di friggere le castagnole, la mamma infornava un paio di “ ciammelle” nel forno. Nella cucina c’ era un fumo che non si vedeva nulla e nonno che era seduto vicino al camino cominciava a tossire allora si rifugiava in cantina per farsi un goccio di vino. In realtà le visite in cantina erano frequenti e la sera risultava sempre un po’ alticcio, emettendo spesso sentenze che farfugliava con la lingua impastata. Aveva sempre bisogno di scaldarsi un po’perché quando fuori c’era la neve, anziché starsene al caldo perennemente, trafficava all’ esterno con le “ lacciole” per prendere qualche uccello da cuocere con la polenta. Eravamo nel periodo di carnevale ed era giovedì grasso. Il sabato successivo dovevamo andare a ballare nella festa della scuola. Noi giovani non stavamo nella pelle per la contentezza e passavamo le giornate a provare i costumi. I vestiti erano rimediati e bisognava aggiustarli e modificarli per l’ occasione. I dolci e le bibite di quelle feste li portavamo da casa ed ogni mamma s’ingegnava a preparare qualcosa. Le nostre feste di carnevale erano spartane e semplici ma il divertimento non mancava, eravamo quasi tutti ragazzi del paese, educati alla responsabilità. La mattina successiva ci si doveva svegliare presto, per aiutare i genitori nelle stalle ad accudire e mungere le bestie. Erano tempi in cui la semplicità andava a braccetto con la dura vita di montagna.

              Vittorio Camacci