Poche case agibili, poche cose, poche persone, molto spazio naturale accerchiato dalle montagne. Statue di Madonne presidiano gli incroci umidi di pioggia. Delle capre dallo sguardo indagatore masticano paglia dietro un recinto. Un piccolo parcheggio davanti ad una chiesa messa in sicurezza. Qualche mucca si aggira pigra sullo sterrato. Un ufficio delle poste, sei o sette bar, un distributore di benzina chiuso, molte “ciaule” che volteggiano nell’aria. Questa è oggi Arquata del Tronto. Dove la vita si arresta in malinconiche monotonie, in quiete disperazioni ed ogni tanto in qualche bevuta. Qui la vita scivola via veloce, la distanza dalla morte è sempre più breve. Non c’è più tempo per l’inutilità, non c’è più spazio per le sciocchezze, non possiamo più trascorrere il resto della nostra vita a parlare di stronzate nell’isolamento e nel sacrificio. Qui segregazione e noia generano violenza contro gli altri ma anche contro se stessi.  Si, questi piccoli paesini, ormai sospesi, sono pieni di violenza, invisibile agli occhi, ma vera. Si nasconde nelle SAE color pastello, nei rapporti famigliari, nei segreti. Ognuno degli abitanti conserva in se e cela le proprie tristezze, i suoi tormenti. Nessuno sfugge: c’è chi piange la notte in silenzio, chi si tiene in vita con un gossip stupido e disperato, chi molesta i vicini, chi è tormentato da un senso immenso d’impotenza e nessuno si vuole più bene. Di chi è la colpa? Della noia, della monotonia, dell’ impossibilità di una via di fuga o di tutte queste cose? Storia e vita, ormai, non appartengono a questo posto, le distanze fanno da barriera, la realtà è lontana ed a volte bontà ed affetto possono tramutarsi in vendetta e meschinità, anche montagne e pascoli sembrano personaggi attraversati da inquietudini. Il paesaggio è specchio dell’ emozioni dei suoi abitanti, la bellezza della natura, sotto la luce soffice filtrata dalle nuvole ci regala solo malinconia. La noia è il sentimento che avvinghia tutto. E’ fisica, è concreta, poche cose da fare, poche da vedere. Tante rovine, una molteplicità di cantieri e la natura intorno, abito dell’ anima che non da possibilità di fuga, con i sogni che se ne vanno. Le stesse facce della gente sono ormai inespressive, pallide, dolorose. Sembrano aver dimenticato anche le cose belle, terapeutiche, positive. Qui, ormai, come nelle tragedie classiche, c’è anche un destino e c’è anche una profetessa. Non è più l’antica Sibilla con i suoi arcani segreti e una strega moderna che urla all’incombenza di una diaspora, il suo grido è annuncio di sventura. Chi sia essa non è da saperlo e non è facile scoprirlo. Probabilmente una di quelle vecchie e isolate signore che vivono nelle SAE, vestite di un nero perenne che quando passano l’altra gente si nasconde dietro le imposte. Donne che parlano per enigmi e insinuazioni ma dicono la verità. Io suggerirei di non scacciarle queste tetre signore; ma piuttosto di invitarle a casa come ospite gradito. Ma tutti non fanno altro che sfuggirle e così si rovinano. Sta proprio qui la colpa e l’errore, scappare dal dolore, dall’inevitabilità, dalla speranza di redenzione. Vivere ad Arquata oggi significa questo. Succede che il tuo vicino diventi all’improvviso tuo nemico e viene da pensare anche questo; che abitare qui, vuol dire causare dolore e riceverne altrettanto, farsi del male a vicenda. Tra tempeste di neve, pinte di birra, disastri sociali e alcune risate tutti cercano una via nuova e nessuno sembra trovarla.

                Vittorio Camacci