Quanto segue è la riproposizione di un post scritto da Gregorio Fulvi, già pubblicato su facebook tre giorni dopo la prematura scomparsa di suo padre Antidio avvenuta il 26 gennaio 2021.
È un pensiero rivolto ad Elena Pascolini e Stefano Cappelli (insieme gestiscono il rifugio “Mezzi Litri” alle falde del monte Vettore, che loro stessi lo definiscono “alimentato da energie sostenibili, che offre una cucina a chilometro zero e ti accoglie davanti ad un grande camino, dove puoi scaldare il cuore e sentirti a casa”) ma vuole raccontare momenti particolari di vita fra un figlio e un padre del dicembre 2013 in Arquata, a Villa Papi, dove era presente anche l’artista Diego Pierpaoli.
A Elena e Stefano: in memoria di mio padre Antidio
Cara Elena,
spontaneamente scrivo queste parole, che escono come un fiume in piena da un cuore colmo di speranza e amore.
Sappi prima di tutto che mio padre Antidio Fulvi aveva colto nelle tue parole e soprattutto nelle tue azioni la capacità umana di migliorare e addirittura cambiare il mondo.
Ti dico che parlavamo continuamente della nostra idea di vita possibile. Di alcune visioni quasi utopistiche, che di certo tu e Stefano Cappelli portate nella mente e nel cuore e che ogni giorno materializzate con la concretezza delle vostre mani.
Avevo intenzione di incontrarti da tempo ormai. Ancora non ho avuto modo di stringerti la mano affettuosamente. Ma quando in futuro i nostri sguardi si avvicineranno per la prima volta so che quello che ci trasmetteremo sarà la semplice e profonda comprensione umana e un conforto quasi fraterno. Quei gesti, espressioni e sentimenti che solo le anime belle, quelle che conoscono le sofferenze delle vicissitudini umane, possono comunicare.
Gli stessi che ieri il tuo amato Stefano ha voluto dedicare a mio padre, me e alla famiglia. Ti dico che mi ha abbracciato con i suoi occhi pieni di emozione e che hanno parlato più di mille parole.
Lui era lì, nell’umile presenza di coloro che sanno e sono spinti da quel senso comunitario. Di quel modo di vivere fatto di sacrifici ma che veniva ripagato dall’amore di gesti semplici e da uno stare insieme genuino. Sappiamo bene che in quell’idea di vita la retorica lascia il tempo che trova.
Così ieri, ha condiviso nel dolore e nella speranza il momento in cui mio padre è stato riportato simbolicamente nella sua terra, nel paese mitico dove è nato. Quello stesso luogo aveva invaso mio padre di sensazioni e lì aveva avuto l’impriting primordiale della vita.
Ero affascinato e restavo in silenzio per ore ad ascoltare racconti di una vita passata, di quegli anni che avevano reso Arquata ciò che era, nel bene e nel male. Profumi, suoni e bisbigli di quelle rue del borgo storico, di un’era andata, erano dentro di lui fino alla fine.
Ma perché ti dico tutto questo? Mio padre ha tenuto a tramandarmi la sua diretta memoria. E sapeva che in un certo modo di vivere si sarebbe riconosciuta quella felicità e la ragione stessa dell’esistenza.
Posso dire con certezza che ha vissuto come voleva, con quella rara sensibilità che spero di ritrovare in nuovi spiriti affini. E so bene che per voi queste parole hanno un senso.
Ora è il momento di ricordare e raccontare qualcosa a te e Stefano, ma forse anche a tutti gli Arquatani o le persone che lo conoscevano, anche poco.
Eravamo io, mio padre Antidio e il caro Diego nella nostra casa, nel villino Papi. Quella casa e quel parco d’arte sono ancora non solo la nostra vita ma un luogo di incontro, di contaminazione, di idee, che tutte insieme potevano tranquillamente tradursi nel buon vivere.
Mio padre era un “Homo Faber” (uomo come artefice, capace di creare, costruire, trasformare l’ambiente e la realtà in cui vive, adattandoli ai suoi bisogni), dai tanti talenti. Grazie al suo ingegno disfaceva, generava e migliorava quelle atmosfere, che hanno coinvolto me e i miei amici.
E mentre il mondo esterno correva sempre veloce con frenesia e avidità, nei silenzi pieni di ascolto per la natura e l’arte, abbiamo avuto la volontà e il coraggio di sognare.
Elena, quella cornice per me e mio padre era ed è sinonimo di libertà. Che sia una libertà espressiva, libertà di incontro o di confronto, resta semplicemente un luogo dove si consumava serenamente la vita.
Ad Arquata, era l’inverno del 2013 e il vento sferzava purezza delle nostre montagne ed ambientazioni, ossigeno puro per l’immaginazione.
Ero lì, immerso fra libri e storie, ispirato dai racconti di mio padre e dal confronto libero e senza peli sulla lingua che ha sempre contraddistinto il nostro rapporto.
Parlavamo delle cose del mondo, delle cose importanti, quelle che ci rendono liberi e ci permettono di essere noi stessi, preservando la nostra autenticità.
In quei momenti non poteva mai mancare il buon cibo che papà si deliziava a preparare con impegno. Era nutrimento per i nostri pensieri, a volte filosofici. Così metteva da parte la sua cultura e il suo essere dispensatore di perle di saggezza, almeno per me, ed assumeva le forme e l’aspetto di un cuoco del tutto rustico.
Ma una cosa non doveva mai mancare in casa, il pane quotidiano. E prima di metterci a tavola mi chiese, anzi, mi ordinò di andare a prenderlo. Naturalmente un sorriso prendeva forma sul mio volto.
Mi mettevo il primo cappotto trovato a ridosso della porta, anche se a volte sporco o pieno di ruggine, e mi apprestavo ad affrontare il gelido inverno arquatano. Sapevo che nessuno mi avrebbe giudicato per il mio aspetto o per il mio vestiario, anche perché avrei incontrato solo qualche gatto randagio o al massimo persone disinteressate.
Sfrecciavo con il pandino blu sotto le arcate del famoso curvone di quel borgo fantasmagorico e mi accingevo a raggiungere il forno del paese, l’unico rimasto.
Mi piaceva toccare quella tendina sulla soglia d’entrata ed accingermi a passo lento, perché sapevo che ogni volta sarei stato avvolto da un intenso profumo di biscotti al vino, di cui io e papà andavamo matti.
Nessuno pareva mostrarsi dietro al bancone, così avevo avuto tutto il tempo di osservare quelle leccornie esposte, immaginando di mangiarle. D’un tratto dal nulla la dolce Filomena (madre di Stefano) mi accoglie con un sorriso ed un fare calmo che solo la sapienza può manifestare.
Ordino un chilo di pane, lei mi dà il più fresco che si trova in negozio in quel momento. Devo dire che a volte mi è sembrato che scrutasse la mia persona, quasi in modo guardingo. Come se in qualche modo volesse cogliere le motivazioni nascoste che mi spingevano a passare del tempo nella desolata Arquata invernale.
Mi dice di salutare papà e Diego. E prima di rivolgerci l’ultima occhiata ecco che sento avvicinarsi qualcuno.
Quelle grosse spalle, temprate dalle prime ore dell’alba, coprono il volto del nuovo arrivato. Un uomo alto è impegnato ora a spostare sacchi di farina, così pesanti da farlo esprimere in un lamento più che educato e forse in grado di ricordargli lo stress che lo attanaglia.
Quella che indossa sembra una parnanza, bianca con macchioline grigiastre, evidentemente consumata da un lavoro estenuante. Lo riconosco, è Stefano. Ci siamo visti diverse volte in giro per il paese ma non avevo mai avuto occasione di parlarci.
Saluto di nuovo e dico ciao. Con un’acrobazia del corpo, nemmeno fosse un’atleta, si gira e mi lancia un’occhiata. Ciao! I suoi occhi sono stanchi ma luminosi e rallegrati. Dimostrano tutta la determinazione per concludere, più velocemente possibile, i suoi compiti giornalieri. Spero proprio che ci sarà un rassicurante fuoco ad aspettarlo in quella simpatica abitazione giallina.
Mi sto per voltare per andarmene ma Filomena mi blocca di colpo e mi dice di aspettare solo un istante. Allunga le sue braccia sopra quella piccola e graziosa teca di meraviglie e quasi per magia appaiono gli amati biscotti al vino rosso.
La guardo un po’ imbarazzato ma accetto di buon grado. Lo prendo come un gesto per rinnovare la sua amicizia nei confronti di mio padre e di quel ricordo d’affetto che custodiva per mia nonna Lucia. Ringrazio ancora una volta e riparto lungo la vecchia Salaria per raggiungere l’atteso pasto caldo.
A tavola scherziamo e ridiamo. Papà macchia la maglia come sempre, quasi fosse un bambino. Diego mangia voracemente e rimane estasiato dal piatto del giorno, zuppa di farro e guanciale.
Ok sono quasi sazio, un biscotto al vino riempirà quell’ultimo spazietto nello stomaco. Mi alzo e vado nella saletta. Ora è tempo di rimettermi all’opera.
Li mi attendono distese infinite di enciclopedie e testi di ogni genere. Papà aveva pensato bene di consegnarmi, quasi in dono, tutta la sua collezione di libri. E certo, come potevo biasimarlo, in quel momento avevo bisogno di lui più che mai, perché stavo scrivendo la mia tesi di laurea triennale. Chi meglio di lui poteva consigliarmi i testi da consultare, gli stimoli giusti per sviluppare il primo scritto della mia vita?
Quella di Antidio era una vera missione. Diventata ancora più forte quando decisi di sognare Arquata insieme a lui.
Quando lo scritto tesistico iniziava ad avere una chiara forma d’insieme, il caro professore Everardo Minardi, attento sociologo dei nostri tempi, mi propose un titolo per il mio lavoro. Lo stimato prof. comprese sin da subito la portata e l’intento del progetto ma speravo di aver sottolineato in modo esaustivo la ragione e la prospettiva futura di Villa Papi.
Ovvero come un ideale polo culturale per valorizzare l’identità e riaccendere l’entusiasmo di quel borgo medievale, prematuramente considerato da molti come finito.
Ed ecco il titolo di quello scritto, condiviso con mio padre negli ideali e nella speranza di un futuro di quel pezzo di montagna: “Un luogo di emozioni, loisir (tempo liberato dal lavoro) e sviluppo culturale: il caso di Arquata del Tronto”.
Ora siamo giunti alla fine di questa storia. Ho voluto ritrarre la figura di mio padre, per me un mentore ma anche un uomo che condivideva tutto ciò che amava e che amavo. Lui ha suscitato in me idee, emozioni, speranze e sogni. Mi ha fatto sognare e di conseguenza, ora, sono un sognatore.
Ti voglio dire un’ultima cosa. In quella visione, che a volte fatichi a renderla concreta, io ci credo fermamente. Perché sono un custode di quei mondi, di un certo modo di intendere la vita.
Dove le verità passano attraverso l’osservazione e la contemplazione dell’immensità delle montagne e dei cieli. Dove quando l’erba si muove sembra un mare e le sue onde ci fanno pensare. Alla vita che va, alla vita che viene.
Ed ecco perché cari Elena e Stefano non siete soli a combattere un mondo di indifferenze, di pugni nello stomaco e di incomprensioni.
Anche se ho solo quasi 30 anni posso dire di aver visto già tante cose e che la sofferenza ha spesso fatto breccia nel mio cuore.
Mio padre la chiamava Pietas, quella compassione necessaria da provare nei confronti di sé stessi e degli altri. Quella che ci fa rendere conto che, nel bene e nel male, siamo semplicemente umani.
Anche se a volte sembrava usare paroloni, quello era il suo modo di esprimere la sua profonda comprensione della vita. Non aveva paura di non essere compreso. Non ne abbiate nemmeno voi.
Papà Antidio ha condiviso con tutti quell’idea di mondo semplice e autentica che risiedeva nel territorio unico di Arquata.
Ma questo voi lo sapete già.
Il suo lascito vive anche in tutti i cuori sensibili e in quelle persone che gli sono state amiche.
Questa eredità vive dentro me ed è per questo che sono vostro amico.
Con affetto, Gregorio