Il vento freddo proveniente dalla Siberia di questi giorni di fine febbraio, ” il Burian ” che in realtà in russo si chiama ” Buran “, mi ha fatto ricordare le storie di alcuni miei paesani che avevano partecipato alla Campagna di Russia tra il 1942 ed il 1943. Spesso, quando ero ancora adolescente, mi sedevo vicino al tavolo dove sorseggiavano vino nel bar de ” Lu vecchiò ” e ascoltavo i loro racconti su quella terribile esperienza. Avevano tutti un soprannome e penso che il loro ricordo sia ancora vivo in molti di voi, essendo dei montanari vennero reclutati dal Corpo D’ Armata Alpino, attrezzato è preparato per combattere in montagna, invece venne usato nelle steppe tra il Don ed il Donez.
I nostri paesani, arrivarono nel bacino del Donez, insieme agli altri sodati italiani , tra il luglio ed il settembre del 1942. Nel dicembre dello stesso anno l’esercito russo sferrò una grande offensiva dal nord. I soldati italiani per un mese, allo scoperto nella steppa, tra bufere di neve e temperatura polari riuscirono a fermare i russi, ma il 15 gennaio del 1943 si ritrovarono circondati da colonne di carri armati, da reparti di cavalleria e dai partigiani bolscevichi. Con una terribile marcia durata 17 giorni, affrontando terribili combattimenti, il freddo, la fame, bufere e tormente di neve, riuscirono a rompere l’accerchiamento portando in salvo tantissimi uomini.
Uno di essi detto ” La Lenza “, quasi sempre taciturno, laconico e un po’ restio nel raccontare, per non riaprire bruttissimi ricordi, un giorno si dimostrò abbastanza loquace e mi narrò la sua storia di guerra : << Partito con l’ ARMIR, galvanizzato insieme ai miei commilitoni con la propaganda e con l’idea di una guerra lampo, su una tradotta passata da Gorizia poi via Tarvisio in Austria, Polonia ed Ucraina. Mi misero in mano un fucile modello 91 ed una baionetta. Ai piedi scarponi di cartone pressato ed indosso un’uniforme invernale con mantellina. All’ arrivo ci piazzarono nelle trincee, tra la steppa piena di neve ed il fiume Don tutto gelato. Dormivamo in piccole caverne rivestite di tronchi, riempite con rudimentali letti a castello. la sera i russi, con i megafoni, lanciavano canzonette italiane come ” u’ surdato innamorato ” invitandoci alla resa illustrando la stupenda vita che facevano i prigionieri di guerra. I giorni e le notti le passavamo nel freddo un po’ a scavare un po’ a fare la guardia. Poi, in inverno, quando i russi hanno rotto la linea ci siamo riuniti ed abbiamo formato un’ immensa colonna di cui non si vedeva la fine alla quale si sono aggiunti anche tedeschi, rumeni e polacchi. Abbiamo cominciato così la ritirata. Si camminava giorno e notte, ci si fermava solo qualche ora nei paesi abbandonati cercando di trovare qualcosa da mangiare. A volte ci aiutavano dei miseri contadini, dal mesto sorriso, brava gente come noi. Poi c’erano i muli; quando morivano cucinavamo qualche pezzo di carne approfittando dei pagliai e delle case che bruciavano. Gli scontri a fuoco erano continui e molti compagni cadevano sulla neve colpiti dalle pallottole russe o fiaccati dal freddo e dalla fatica. Mangiare era un miraggio, un lusso. Io sono stato fortunato perché un giorno in un’isba ho trovato alcune patate, crauti, un barattolo di piccole mele sotto aceto ed una borraccia piena di miele che mi ha dato l’energia per andare avanti. Era faticoso anche respirare, tanto l’aria era fredda, per farlo ci mettevamo un pezzo di coperta in faccia. La mantellina che avevamo in dotazione si accorciava a vista d’occhio : ogni giorno ne tagliavo una striscia per rifare le fasce da mettere sulle gambe sotto il ginocchio. Le scarpe di ” cartone pressato ” le avevo buttate via quasi subito perché facevano entrare la neve e l’acqua ed i piedi mi si gonfiavano. Così li ho avvolti in un pezzo di coperta e mi sono salvato. A volte il freddo arrivava a 40° sotto zero, il sergente ci dava un po’ di cognac raccomandandoci di mischiarlo con l’acqua. Qualcuno non seguiva il consiglio ed allora moriva assiderato seduto sul suo zaino ad aspettare che finisse ” la sbronza”. Nel lungo viaggio prendevamo anche gli stivali e gli indumenti dei morti altrimenti non avremmo potuto fermare il freddo della steppa. Quando entravamo nelle isbe chiedevamo: ” Khleba ! Khleba ! ” ( Pane ) , ma quei poveri contadini impauriti non ne avevano neanche per loro. Di morti durante il cammino verso l’ Italia ne ho visti tanti, troppi, sono stato costretto a camminarci sopra. Di loro mi rimane un ricordo incancellabile ed ancora vivo e soffro ogni volta che devo strapparlo dal cuore per raccontarlo a qualcuno ma devo farlo perché solo così il loro sacrificio non andrà perduto >>. La Lenza fu uno dei fortunati che tornò a casa. Fu un marito ed un padre esemplare. Ci piace ricordare che durante la festa tutti volevano cavalcare il suo asino nella ” Corsa dei Somari ” , era il più veloce perché ” La Lenza ” li sapeva addestrare ricompensandoli con un’immancabile zuccherino a fine gara.
Vittorio Camacci.